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Domenica, 28 Aprile 2024
Attualità Trissino

Sui Pfas «guarentigie speciali» coperte «dal segreto militare»

Ai taccuini di Vicenzatoday.it un funzionario del Ministero dell'ambiente che chiede l'anonimato svela alcuni retroscena relativi al dossier «Miteni» che da anni scatena polemiche di ogni tipo dentro e fuori la galassia ecologista, veneta e non solo

«In Italia la produzione di Pfas da sempre gode di guarentigie speciali che direttamente o meno sono richiamate anche in alcuni documenti coperti dal segreto militare». A parlare in questi termini ai taccuini di Vicenzatoday.it è un funzionario del Ministero dell'ambiente che considerando la delicatezza del tema chiede «il più totale anonimato». La questione per certi versi è ben nota alla galassia ecologista. Basti pensare, tanto per fare un esempio ai mal di pancia emersi durante due eventi pubblici organizzati nel Veneto di cui ha dato conto Vicenzatoday.it con due servizi ad hoc: il primo intitolato L'affaire Pfas e «il peso del complesso militare industriale» pubblicato nel settembre 2022 e l'altro intitolato L'ombra del «deep state» sull'ecosistema veneto pubblicato non più tardi del febbraio di quest'anno. Ed è in questa scia che si collocano le dichiarazioni del funzionario del dicastero di via Cristoforo Colombo a Roma. Il quale spiega che «molti riflessi di questo sistema di relazioni» si sono avvertiti anche attorno al processo che si sta celebrando a Vicenza sull'affaire Miteni, la industria chimica di Trissino finita al centro di uno scandalo ambientale gigantesco che riguarda una colossale contaminazione da derivati del fluoro, o Pfas appunto, che nel Veneto centrale ha colpito Veronese, Vicentino e Padovano.

Senta, dopo la deflagrazione dell'affaire Miteni le polemiche sono schizzate a mille. Lei se lo aspettava?
«In parte sì e in parte no».

Può essere più preciso?
«La materia per gli interessi in ballo è delicatissima. Tutto sommato a livello internazionale l'informazione è stata abbastanza capillare e puntuale sul problema. Ma l'informazione non basta perché un determinato dossier impatti sull'opinione pubblica. Pertanto il caso ha assunto un peso politico preciso quando il New York Times ha dedicato uno speciale all'avvocato americano Robert Bilott, la bestia nera dei Pfas, quando sulla scorta di quel servizio ad Hollywood hanno dato vita ad un film straordinario, Cattive acque, dedicato al fratello minore del caso Pfas, quello registrato una ventina d'anni fa negli Usa».

E poi?
«E poi è toccato all'Italia con gli speciali della Rai e delle Iene, tra gli altri. È stato sicuramente un giro di boa».

Perché?
«Ma perché a quel punto era chiaro che il conflitto non riguardava solo l'ambiente visto come realtà ideale da proteggere e chi quell'ambiente lo altera. Di più, la politica ha dovuto rendersi conto, la storia di Bilott coi risarcimenti miliardari accordati ai danneggiati lo dimostra, che si era passata la soglia. Per cui la posta in gioco diveniva chiaramente contendibile su più piani. Le corporation hanno cominciato a capire che potevano rimetterci chissà quanti quattrini».

Vale a dire?
«Vale a dire che grazie a quanto uscito dal 2018 in poi su tantissimi media si è cominciato a capire che parecchie erano le pretese cui si poteva dare corpo: da quelle in ambito giudiziario a quelle sul piano amministrativo, da quelle in ambito legislativo-politico sino a quelle in ambito economico, ossia quelle che hanno a che fare con la necessità di guardare verso altri modelli di sviluppo. Che vanno seriamente discussi».

Nell'ambito di questo scontro dialettico però tra rete ambientalista, legislatori e detentori del potere economico spesso si è parlato della lobby industriale. Lei come ha assistito a questo dibattito?
«A me è sembrato che in molti momenti non si sia messa a fuoco la questione. Quando si parla di Pfas, di questi tecnicamente fenomenali ma ambientalmente temibilissimi derivati del fluoro, si fa riferimento ad alcuni ambiti applicativi. Spesso sui giornali si parla di rivestimenti delle padelle, di impermeabilizzanti per i tessuti, di giubbotti antipioggia e così via».

E allora?
«Sono stupidaggini, fregnacce come si dice a Roma».

Cioè? Può spiegarsi meglio?
«Ma secondo lei i tycoon dell'industria e i big della grande finanza che con loro camminano a braccetto si spaventano se una giacca a vento dall'oggi al domani perde la sua caratteristica anti goccia? Ma scherziamo? Il grosso sta da un'altra parte».

Lei si riferisce alle implicazioni nella grandissima industria come quella aeronautica, la navale, quella dei semiconduttori e soprattutto quella militare che con gli altri settori citati è strettamente interconnessa giacché di Pfas ne impiega a profusione?
«Esatto. Non dimentichiamo anche le grandi costruzioni. In pochi si rendono conto che è questo il vero nocciolo della questione».

Lei come argomenta tutto ciò?
«L'esempio più illuminante riguarda come a livello italiano e europeo si tergiversi da sempre sull'inasprimento delle soglie di tollerabilità dei Pfas che in molti chiedono prossime allo zero. Ora non entro in aspetti tecnici relativi ai livelli che riguardano sangue, acque potabili, scarichi, idrografia di superficie, di falda: sono dettagli trascurabili».

Mi scusi, qual è il punto allora?
«Appena il fronte ecologista ha cominciato a fare pressione sui parlamenti, quello del Belpaese in primis, è cominciata la solita melina. Le Camere hanno chiesto al governo di interessarsi della partita, i governi hanno dato via ad alcuni tavoli di approfondimento, poi ci si sono messi i cambi di esecutivo, le maggioranze a geometria variabile, i passaggi in Europa e via via sopendo. Poi abbiamo assistito ai viaggi romani degli attivisti. Tutto degnissimo per carità, ma c'è un ma».

Quale ma?
«Si è perso di vista un aspetto fondamentale. Le leggi le scrive il parlamento. Palazzo Madama e Montecitorio in qualsiasi momento possono stabilire vincoli i più stringenti in ragione del principio di precauzione. Ed è qui che l'industria, ambienti governativi, ambienti militari, intelligence, si sono fatti sotto ed hanno ottenuto la solita provvisoria dilazione all'italiana».

All'italiana?
«Sì, e siccome in Italia nulla è più definitivo del provvisorio siamo ancora alla fase delle chiacchiere. E le dico di più».

Ossia?
«Un riflesso del potere di questa lobby informale lo si è avvertito anche sul maxi processo in corso a Vicenza, quando le rogne che hanno riguardato le autorizzazioni o gli omessi controlli da parte degli enti pubblici di cui in passato ha beneficiato la Miteni, sono in qualche modo finite in cavalleria. Se si compone questo puzzle prende corpo una realtà evidente».

Di che cosa sta parlando?
«La Miteni non è un fungo spuntato dal nulla».

E che cos'è?
«Al di là degli assetti proprietari sedimentatisi nel tempo la ex Miteni cioè la Rimar dei Marzotto già alla fine degli anni '70 ammorbò le acque dell'hinterland vicentino a causa dello scandalo dei cugini dei Pfas, i Btf noti come benzotrifluorati. Ricordiamocelo, non fa mai male. L'antesignana della Rimar mentre sperimentava quelle sostanze fece morire pure i vitigni dell'allora parroco a Trissino alta. C'è uno stillicidio di episodi durato anni che aveva il profumo dei possibili guadagni e il puzzo del degrado ambientale».

Ci fu pure una condanna, o no?
«Sì per il caso Bft un manager di Rimar fu condannato, ma contestualmente intervenne una amnistia. Quindi la sentenza ne dovette tenere conto».

Perché ricorda questo frangente?
«Ripeto, ne parlo per rilevare come la pericolosità della ditta fosse arcinota. Nonostante ciò negli anni le autorizzazioni sono fioccate come la neve sulla casa di Babbo Natale: così senza problemi fino quando i comitati si sono mossi per la deflagrazione dello scandalo dei derivati del fluoro. Mai però da parte della magistratura è arrivato un arresto cautelare o un draconiano provvedimento di sequestro, nonostante i tanti solleciti, mentre oggi gli imputati sono accusati di reati patrimoniali e ambientali gravissimi».

Che cosa s'è inceppato?
«Forse di che cosa non ha funzionato in certi uffici giudiziari, non solo a Vicenza, dovrebbe occuparsi anche il ministro della giustizia Carlo Nordio? Io so solo però che dopo il fallimento della Miteni la produzione dei Pfas in Italia non si è fermata visto che mutatis mutandis la stessa produzione è stata affidata alla Solvay di Spinetta Marengo che con Miteni aveva dei rapporti. Per di più, come nel caso Miteni, a Spinetta in provincia di Alessandria, la Solvay ottiene le autorizzazioni del caso nonostante da tempo sia investita da polemiche a più non posso. E ci risiamo».

Sarebbe a dire?
«È come se una matrice occulta generasse la solita sceneggiatura. Il meccanismo è stato bene illustrato in un recente servizio delle Iene peraltro.

Anche quello che sta succedendo in Piemonte è grave?
«Ma che le debbo dire? A Roma girano voci che la magistratura, di Torino nello specifico, abbia aperto un fascicolo esplorativo che non riguarda notizie di reato o un fascicolo contro ignoti. Il focus riguarderebbe l'operato di alcuni assessorati. Vedremo che cosa accadrà in futuro».

Lei parla di alcune entità sfuggenti, una sorta di kombinat occulto, che si sarebbe mosso in lungo e in largo tra Veneto e resto del Paese per portare avanti una azione lobbistica più o meno celata. Tuttavia le lobby esistono ovunque, anche presso l'Unione europea, che per certi versi spinge verso un continente a Pfas zero e dall'altro ascolta certe sirene contrarie. Le cose come stanno quindi?
«In Italia la produzione di Pfas da sempre gode di guarentigie speciali che direttamente o meno sono richiamate anche in alcuni documenti coperti dal segreto militare. Soggetti di alto livello in seno ai ministeri, al governo, alle gerarchie militari, all'Arma dei carabinieri, alla magistratura, per non parlare delle Camere fino a giungere al Copasir, sono a conoscenza di questa realtà. In qualche modo tutto ciò fa parte del gioco».

E in Europa è lo stesso? E poi che cosa intende per guarentigie? Parla di sicurezza nazionale?
«Preferisco non essere più esplicito: ecco per avere un riferimento pensi ad un ambito strategico. Quanto all'Europa poi possiamo dire che più o meno è lo stesso. Anzi, diciamo che i diretti interessati alle volte sono più espliciti. In quella monarchia repubblicana a cadenza quinquennale che è la Francia il presidente Emmanuel Macron quando ha capito che alcuni Paesi del Nord Europa stavano prendendo il sopravvento per una regolamentazione più stringente in materia di Pfas e non solo ci ha messo la faccia: imponendo de facto un dietro front. Cosa che è avvenuta quest'estate peraltro.

Quali interessi sarebbero in gioco? C'è solo l'industria chimica di mezzo?
«Ma siamo seri. La Francia produce gran parte della sua energia elettrica con l'atomo. La Francia è una potenza atomica anche in ambito militare. È chiaro che dietro l'alert di Macron ci sono questioni attinenti alla rilevanza cruciale che hanno i Pfas nell'industria nucleare e in quella nucleare bellica. A questo aggiungiamo quanto i Pfas siano importanti nel processo di fabbricazione dei semiconduttori in ambito elettronico. I quali sono cruciali in Occidente nella competizione tecnologica con la Cina, in ambito sia civile sia militare».

Senta però negli anni si è parlato anche delle rogne della filiera alimentare proprio in relazione ai Pfas. Questo non è un problema altrettanto rilevante?
«E lo viene a domandare a me? Veda lei. Le denunce di Greenpeace, che parla di Veneto come zona di sacrificio, non hanno bisogno di molti commenti. Basta leggere quei dossier per capire quanto in là ci stiamo spingendo. Quanto ai Pfas comunque la si pensi impattino con salute e ambiente: occorrerebbe, una volta per tutte, far accomodare tutti i portatori di interesse, i governi, il mondo ecologista per provare a interrogarsi in merito ad una questione dirimente».

Quale questione?
«A che cosa si può rinunciare? A che cosa non è possibile? Quanto per esempio in Pfas sono necessari per produrre che so farmaci salvavita? Che quantità ne servono davvero? Si possono smaltire in modo non nocivo?».

Quando di si parla di filiera alimentare veneta si dovrebbe valutare anche l'operato delle commissioni bicamerali ecomafie al riguardo?
«Perché no? L'operato di ognuno può essere messo in discussione».

Ecco a quanto è dato di sapere mai gli amministratori delegati dei grossi player della trasformazione sono stati convocati perché fosse chiesto dove erano dislocati i singoli allevamenti da cui giungevano gli animali da macellazione o destinati in genere alla produzione alimentare. Come non è stato chiesto un censimento al millimetro dei pozzi, come non è stato chiesto l'elenco di eventuali cooperative che fornivano manodopera sia negli allevamenti sia nei grandi stabilimenti zootecnici veronesi, vicentini e padovani. Allo stesso modo non è stato domandato alla Dia o più in generale alle forze dell'ordine se vi fossero possibili infiltrazioni mafiose tra i soggetti che eventualmente somministravano personale a quel colossi. Come mai, a quanto risulta, non è stato acceso alcun fanale in questa direzione?
«Insomma lei si è fatto una bella domanda. Ora si dia anche una risposta».

Che fa scimmiotta Gigi Marzullo? Che vuole intendere?
«Preferisco non aggiungere altro. Anzi aggiungo una sola cosa. Se si parla più in generale ci sono delle questioni che rimangono aperte?».

Ossia?
«Cominciamo dalla cosiddetta bonifica della Miteni. È ancora in alto mare. Ma i politici, a Roma come a Venezia, sanno che una bonifica degna di questo nome non si potrà mai eseguire. Hanno il coraggio di dirlo coram populo?».

Poi?
«Poi ci sono ancora troppi silenzi sul caso Safond che potrebbe avere a che fare con la fornitura di acqua potabile a Padova e a Vicenza, come rimane in sospeso quanto la commissione Ecomafie ebbe a dire sulla Fis di Montecchio Maggiore».

C'è dell'altro?
«Giacché si parla di industria chimica del distretto Agno-Chiampo la politica veneta poco o nulla ha detto di una maxi multa che sarebbe stata inflitta da Viacqua ad una importantissima conceria dell'Ovest vicentino: come mai? Le cose stanno davvero così?

Lei conosce il nome di questa conceria?
«Preferisco non rispondere».

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