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«C'è un parallelismo inquietante» tra i casi Turetta e Vasiljevic

In una lunga intervista a Vicenzatoday.it il penalista Renato Ellero parla di «cono d'ombra» sulle equipe di terapia psicologica che hanno assistito i due uomini ben noti alla cronaca nera regionale: sia il recente assassinio che il duplice omicidio di Vicenza infatti continuano a far discutere l'opzione pubblica. Il professore aggiunge però che vicende del genere non debbono trasformarsi in alibi buoni per non affrontare il tema delle morti sul lavoro: un tema spinoso per il Nordest

In queste ore l'auto di Filippo Turetta, il padovano che avrebbe ammesso l'assassinio della studentessa universitaria Giulia Cecchettin residente nel Veneziano, dovrebbe essere a disposizione dei carabinieri del Ris per gli accertamenti di rito. Ora però al di là delle indagini, che faranno il loro corso, sta emergendo giorno dopo giorno «un cono d'ombra comune, un parallelismo inquietante» proprio tra il delitto Cecchettin e l'omicidio Miljkovic-Serrano. A sostenerlo ai taccuini di Vicenzatoday.it in una lunga intervista è Renato Ellero: vicentino già docente di diritto penale all'Università di Padova e penalista molto noto nel Veneto. Il professore aggiunge anche due altre riflessioni. Uno, il recentissimo omicidio di Cecchettin non deve essere un alibi per non affrontare anche il dramma delle morti bianche, «basti pensare al caso di Anila Grishaj» vittima di un infortunio sul luogo di lavoro. Due, «il giustissimo cordoglio» tributato alla famiglia Cecchettin va tributato anche alle altre donne uccise nello stesso modo perché se così non fosse il clamore generato attorno al delitto potrebbe divenire la scusa buona per le istituzioni e per la politica sia per non risolvere il problema in generale sia per non affrontarne altri altrettanto gravi.    

Professore la vettura di Turetta, il padovano accusato dell'omicidio di Giulia Cecchettin, sarà a disposizione della unità scientifica dei carabinieri per i riscontri di rito. Fermo restando che gli accertamenti tecnici e il resto delle indagini seguiranno la loro strada,  lei come si spiega il grandissimo clamore di questa vicenda?
«Si tratta di un delitto efferato. Che chiaramente ha colpito l'immaginario collettivo. Le attestazioni di solidarietà alla famiglia, colpita da una perdita incolmabile sono sacrosante. Poi c'è stato il contorno».

A che cosa si riferisce?
«Poiché la vicenda è lungi dall'essere tutta chiarita io eviterei una lettura sociologica affrettata. Che all'oggi si è prestata ad alcune strumentalizzazioni. Anche da parte di chi ha usato questo caso per evitare di parlare dei serissimi problemi del Paese e del Veneto in particolare».

Può fare un esempio?
«Mentre si consumava il dramma del delitto Cecchettin altri drammi finivano o nel dimenticatoio o in sordina, a partire da alcune morti sul lavoro che hanno colpito anche donne, qui nel nostro Veneto. Lungi da me dal fare graduatorie sulle disgrazie ma sempre di vicende penali si tratta. E le morti bianche sono un capitolo nero, spinosissimo, con cui il Veneto fatica a confrontarsi. Purtroppo in questa società del Nordest c'è una parte del ceto dirigente che sotto sotto considera questi infortuni meri danni collaterali: il tutto mentre il tema della prevenzione si affronta poco o male. Poi ci sarebbe una considerazione generale da fare».

Quale?
«La povera Cecchettin è una delle innumerevoli vittime di femminicidio. Hanno tutte la stessa dignità. Non si capisce perché le corone, i messaggi delle autorità, le proposte per una fondazione si siano tributati in tal misura solo a quella famiglia e non ad altre: visto che parte della responsabilità di questa piaga è proprio attribuibile alla inerzia delle politiche tese a contenere la violenza di genere».

E pertanto?
«Pertanto non esistono priorità in questo senso basate sulla portata mediatica del caso. Non è umanamente accettabile: Rita Amenze o Alessandra Zorzin, Serrano o Miljkovic contano di meno? Ecco nell'afflato mediatico di certi settori della classe dirigente scorgo l'artificio per non parlare delle proprie inerzie».

Senta lei da penalista ha spesso parlato di strumenti utili a prevenire i reati di genere. Lei rimane convinto di questo?
«Sí certo. È chiaro che anzitutto va avviato in parallelo un percorso di mutamento della società in ragione del quale l'uomo possa e debba un giorno desistere dall'aggredire la donna in quanto donna. Il che vale più in generale per il tema del sopruso del forte sul debole. Ma nel frattempo che si fa?»

Ecco appunto, che cosa si può fare?
«Chiaramente servono politiche serie adeguatamente finanziate, che prevedano l'intervento di consultori da ri-potenziare. Appresso ci devono andare la scuola, gli enti locali, le Ulss ossia le aziende sanitarie. Il che cozza con i bilanci pubblici che oggi versano in condizioni assai critiche, in primis per quanto riguarda il comparto salute. Non è un caso nel Veneto abbiano protestato a migliaia negli anni».

Sì però questi obbiettivi, seppure passo dopo passo, come si raggiungono nel concreto?
«Vanno disegnati percorsi di aiuto proattivo alle donne, in modo che queste aumentino, sin da giovanissime, lo strumentario utile a individuare, tenere lontano e segnalare il violento. Poi quando si travalica la sfera penale la magistratura deve, e sottolineo tre volte deve, fare la sua parte».

È un risultato facilmente raggiungibile?
«Al di là dei compiti della magistratura, che deve sempre ossequiare la nozione dell'obbligatorietà della azione penale, il resto sarebbe certamente un risultato alla portata delle istituzioni e della società civile: in teoria».

E allora il problema qual è?
«Il problema è che serve, tempo, studio, programmazione, condivisone, capacità di identificare risorse pubbliche senza sciuparle. E siamo in Italia».

Frattanto però grazie a Chi l'ha visto su Rai tre il Paese intero ha saputo che Turetta aveva avviato un percorso di assistenza psicologica presso l'Ulss 6 padovana. Il ragazzo quindi aveva contezza delle sue condizioni. La cosa peraltro ha scatenato l'ira di chi, si pensi a quanto riportato dal Corsera, rimarchi con forza come di fronte a casi tanto gravi si debbano muovere i medici ossia gli psichiatri e non gli psicologi. I primi infatti hanno un bagaglio professionale e formativo di tutt'altra caratura rispetto ai secondi. Lei che dice al riguardo?
«Se emergesse qualche lacuna da codice penale in capo a chi aveva in capo il percorso terapeutico di Turetta sarebbe una cosa di una gravità inaudita. Anche alcune eventuali inadempienze sul piano disciplinare o deontologico, ove davvero sussistessero, sarebbero ben gravi».

E quindi?
«E quindi mi aspetto non solo che in tal senso facciano chiarezza le procure. Mi aspetto pure chiarezza con accertamenti amministrativi da parte di Ulss 6, Ministero della salute e pure dagli ordini professionali».

Perché?
«Perché l'attività di questi centri di assistenza bisogna cominciare pur a misurarla. O no? Tanto che a me vengono in mente altri casi».

Sarebbe a dire?
«C'è un parallelismo inquietante, un cono d'ombra comune, tra il percorso terapeutico cui si è sottoposto Turetta e quello cui si sottopose Zlatan Vasiljevic che a Vicenza appena un anno fa uccise la rubanese Jenny Gabriela Serrano e la scledense Lidija Miljkovic. Anche il camionista di Altavilla vicentina era stato in cura presso una struttura accreditata dall'Ulss. Sappiamo tutti come andò a finire».

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