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Venerdì, 26 Aprile 2024
Economia

Lavoro e caro-vita, lavoratori costretti a rinunciare ad alimenti e cure sanitarie

L'indagine del Centro Studi Cisl Vicenza in occasione del 1° maggio

Per i lavoratori vicentini quest’anno il 1° maggio sarà all’insegna dei timori per il futuro e delle difficoltà concrete ad arrivare a fine mese, anche per gli appartenenti a quella che un tempo veniva considerata la “classe media”. Sono queste le indicazioni che emergono dalla nuova indagine condotta dal Centro Studi Cisl Vicenza - curata dai ricercatori Stefano Dal Pra Caputo e Francesco Peron - su un campione di circa 1.200 lavoratori vicentini per indagare in quali modi e in che misura il caro-vita ha effettivamente cambiato le abitudini dei lavoratori della provincia e qual è oggi il grado di ottimismo e fiducia rispetto al futuro.

«Come Cisl - sottolinea il segretario generale provinciale Raffaele Consiglio - in occasione della Festa dei Lavoratori abbiamo voluto indagare quale sia oggi realmente la condizione dei lavoratori nel nostro territorio e lo abbiamo fatto con la consueta concretezza, attraverso i numeri e dando voce ai lavoratori stessi. Non si può dire che il risultato sia del tutto una sorpresa, ma certamente i dati che abbiamo raccolto dimostrano quanto grandi siano le difficoltà che stanno vivendo i lavoratori e in generale le famiglie vicentine».

Ben l’85% del campione ha confermato infatti di avere dovuto fare delle rinunce negli acquisti, e questo nonostante l’86% degli intervistati disponga di un contratto a tempo indeterminato e il 43,6% dichiari uno stipendio netto mensile di oltre 1.500 euro: a conferma del fatto che la crisi dei prezzi ha colpito duramente anche quanti hanno una posizione di lavoro piuttosto solida. A ulteriore conferma, tra quanti dichiarano uno stipendio netto mensile inferiore a 1.000 euro al mese la percentuale di chi ha compiuto delle rinunce è pari al 90% se non oltre (e 88,1% tra quanti hanno uno stipendio tra 1.000 e 1.499 euro), ma tale percentuale resta altissima anche nella cosiddetta “classe media”: dichiara rinunce agli acquisti l’83,8% di chi guadagna tra 1.500 e 1.999 euro e il 71,00% di chi a fine mese può contare comunque su un assegno tra i 2.000 e i 2.999 euro. Addirittura, perfino tra chi può contare su uno stipendio mensile tra i 3.000 e i 4.9999 euro c’è un 61,9% che dichiara di avere compiuto delle rinunce; solo oltre i 5.000 euro al mese l’inflazione sembra non avere avuto impatti sui comportamenti di acquisto.

Una crisi che vede ancora una volta le donne le più colpite, probabilmente per effetto dei redditi mediamente inferiori e delle posizioni lavorative più deboli rispetto agli uomini: dichiarano di aver dovuto rinunciare a degli acquisti l’87,6% delle donne contro l’81,2% degli uomini.

Ma a cosa hanno rinunciato i lavoratori vicentini? Come tipicamente accade, le categorie di spesa maggiormente tagliate sono i pasti consumati fuori casa (67,8%), l’abbigliamento (63,2%) e i viaggi (61,8%), seguiti da oggetti di consumo (41,3%) e sport e tempo libero (39,1%). A colpire l’attenzione, però, sono due dati: ben il 29,8% ha rinunciano anche all’acquisto di alimenti e il 22,2% alle cure mediche. E non si pensi che queste rinunce riguardino solo i redditi più bassi: il taglio delle cure mediche arriva a toccare anche chi ha un reddito tra i 2.000 e i 2.999 euro (7%) e resta significativo anche nella fascia di reddito mensile tra i 1.500 e i 1.999 euro (23,7%), mentre con percentuali e modalità differenti il taglio delle spese per gli alimentari arriva anche ai redditi fino a 4.999 euro (verosimilmente, in questo caso, come modifica delle scelte di acquisto piuttosto che come vere e proprie rinunce).

In questo contesto, non stupisce che dopo esserci scoperti improvvisamente molto più poveri, i lavoratori vicentini nutrano ben poca fiducia per il futuro. Secondo il 54,2% del campione il 2023 sarà addirittura peggiore rispetto al 2022, per il 30,8% sarà uguale e solo il 14,9% crede in un miglioramento. E di nuovo, probabilmente perché più colpite dalla crisi sul piano economico e con posizioni lavorative mediamente più fragili, ad essere più pessimiste sono le donne (prevede un peggioramento il 55,7% del campione femminile, contro il 52% degli uomini).

Un altro dato assai significativo è l’uniformità del giudizio rispetto alle fasce di età: seppure con percentuali variabili, infatti, in tutte prevale l’idea di un 2023 peggiore rispetto al 2022, dai più giovani (15-24 anni, 44%) a chi è ormai prossimo alla pensione (over 65, 47,8%), con le punte di pessimismo maggiore (tra il 53,4% e il 55,5%) nelle fasce di età centrali, ovvero tra i lavoratori che dovrebbero avere una posizione professionale migliore o comunque la visione ormai ben definita di un percorso di carriera.

A confermare il livello generalizzato della crisi, la ricerca del Centro Studi Cisl Vicenza evidenzia inoltre come tale visione pessimistica prevalga nei lavoratori di tutti i settori, con l’eccezione delle costruzioni (dove i pessimisti sono “solo” il 45% del totale) e in parte della logistica (47%) per effetto del forte dinamismo di questi settori negli ultimi anni. Viceversa, particolarmente critico è il giudizio tra i lavoratori del commercio (prevede un 2023 peggiore del 2022 addirittura il 63,6% del campione), ma colpisce che al 2° posto nella classifica dei lavoratori più pessimisti si collochino quelli del settore manifatturiero (56%), nonostante l’indubbia forza del tessuto produttivo provinciale.

«Il vero tema oggi, almeno nel nostro territorio, non è la paura di perdere il lavoro - sottolinea Raffaele Consiglio, Segretario Generale provinciale di Cisl Vicenza - bensì la capacità del lavoro di produrre un livello di benessere adeguato. È inaccettabile che nella terza provincia d’Italia per export, in valore assoluto, quasi 1 lavoratore su 3 sia costretto a rinunciare alla spesa alimentare e addirittura 1 su 5 alle cure mediche. Sono dati che dimostrano tutta l’urgenza di affrontare il tema».

Da qui la proposta di Cisl Vicenza: «Il primo passo non può che essere concertare nei luoghi di lavoro, con le aziende, le condizioni che consentano un aumento salariale, facendo crescere però allo stesso tempo anche la produttività. Le aziende devono guadagnare di più per distribuire salari più alti. In questo scenario, anche alla luce degli ostacoli del sistema-Paese alla competitività delle aziende, lavoratori e imprese devono essere corresponsabili della reciproca crescita. Ma per ottenere questo risultato occorre smetterla con la cultura antagonista, anzi il percorso da seguire è verso una maggiore corresponsabilità nella gestione delle imprese: facciamo in modo che i lavoratori siano maggiormente partecipi dei problemi dell’impresa e allo stesso tempo che le imprese siano coinvolte nel dare risposte ai bisogni dei loro dipendenti e in generale del tessuto sociale, non solo attraverso la leva salariale ma anche con gli accordi di welfare e tutte quegli strumenti che consentono di conciliare meglio le esigenze del lavoro e della vita familiare».

Allo stesso tempo, però, la condizione descritta dalla ricerca del Centro Studi Cisl Vicenza evidenzia anche l’importanza di specifiche azioni da parte delle Amministrazioni locali e delle Regioni: «Occorre affrontare seriamente la questione sanitaria e abitativa, partendo dalla consapevolezza che oggi risultano fortemente colpiti non solo i redditi più bassi, ma anche quelli medi: si prenda atto che il caro-vita sta mettendo in crisi quella che una volta era considerata la spina dorsale del Paese e dunque si rivedano le soglie di accesso basate sul reddito per accedere alla maggior parte delle agevolazioni. L’ISEE oggi non può più essere l’unico strumento di valutazione, dobbiamo alzare la soglia di reddito entro la quale si ha diritto a determinati aiuti, piuttosto che abbassare la tassazione sui redditi alti».


 

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