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Economia

Liquidazione di Veneto banca: il «dossier» De Vido agita la Capitale

Un esposto indirizzato alla procura di Treviso da una associazione vicentina «che tutela il risparmio tradito» fa intravedere uno spaccato pieno di incognite inquietanti in merito alla gestione di una procedura sulla quale dovrebbero vigilare «il Ministero dell'economia e Bankitalia»

Le «carte esplosive» finite sul tavolo della Procura di Treviso potrebbero riscrivere la storia recente «di Veneto banca», l'istituto di Montebelluna nella Marca finito in «Liquidazione coatta amministrativa». Operazioni borderline, debiti ridotti a debitori di alto lignaggio in circostanze da chiarire, vantaggi più o meno indebiti concessi ad alcuni soggetti che appartengono al gotha della finanza del Nordest: c'è questo e molto altro in un esposto inviato alcune settimane da una associazione che tutela «gli ex azionisti azzerati» delle popolari venete collassate all'epoca degli scandali bancari deflagrati a partire dal 2015. Nella capitale, il caso sta già facendo venire l'orticaria, a partire dai corridoi della politica che conta. E così il tormento che ha portato al collasso delle ex banche popolari venete sembra non avere mai fine.

IL PREAMBOLO
Agli inizi di febbraio, «Noi che credevamo nella Banca popolare di Vicenza e in Veneto banca», una associazione con base nella città palladiana attiva «sul fronte della tutela del risparmio tradito», dà conto di una segnalazione inviata in quei giorni ai magistrati della Marca. All'epoca il presidente della associazione, il vicentino Luigi Ugone, rimane tutto sommato abbottonato.

Poi però la tensione sale d'improvviso quando il 5 marzo Ugone comincia a lamentarsi dei commissari che gestiscono la «Liquidazione coatta amministrativa» (Lca in gergo giuridico). Il motivo? Li reputa poco disposti a collaborare a fronte delle richieste di trasparenza, in primis per quanto riguarda la ostensione di documentazione critica relative alle attività in seno stessa Lca. Attività che dette alla grezza non sono altro che quanto di buono è rimasto nella pancia della banca dopo il suo crac.

RISPARMIATORI INSINUATI AL PASSIVO
Ovviamente si tratta di una situazione che sta a molto a cuore «ai risparmiatori traditi che si sono insinuati al passivo». La ragione è presto detta. Questi sperano, proprio dopo la vendita al miglior prezzo possibile di quelle attività (beni immobili, partecipazioni, beni mobili e altro ancora) di ricavare almeno una parte del capitale perduto col collasso della banca di Montebelluna.

Poco dopo gli echi della querelle, iniziano ad essere avvertiti anche nei palazzi romani perché la Lca è una procedura concorsuale soggetta al diritto fallimentare che investe direttamente gli enti pubblici: anche «il Ministero dell'Economia e Bankitalia». Si tratta «di enti che hanno compiti specifici di vigilanza» fa sapere Ugone (in foto una veduta del dicastero di via XX Settembre).

Infatti «è proprio la Banca d'Italia a procedere con la nomina degli stessi  commissari». Che oggi nel caso della ex banca di Montebelluna sono l'avvocato Alessandro Leproux, la professoressa Giuliana Scognamiglio, avvocato e giurista romana di chiara fama, nonché il dottore Giuseppe Vidau.

NOMI, DATE, IMPORTI E MANOVRE ANOMALE: IN BALLO 73 MILIONI
E così mentre le settimane passano veloci, negli uffici giudiziari di via Verdi le carte via via si accumulano. Oltre all'esposto Ugone deposita una ulteriore integrazione: il che avviene tra la fine di febbraio e i primi di marzo. Dalle parti del palazzo di giustizia la voce si diffonde in un baleno. La pratica messa insieme dai consulenti dell'associazione viene definita «un dossier che scotta». Nomi, date, importi, manovre anomale, mettono in allarme gli investigatori. E la magistratura, giocoforza in casi del genere, deve aprire un fascicolo. Chi scrive peraltro ha potuto visionare una parte della documentazione finita alla Procura della repubblica di Treviso.

Frattanto tra le fila del notabilato di Montebelluna e dintorni c'è chi parla di circostanze che «fanno tremare i polsi». Il primo big preso di mira è il finanziere Andrea De Vido. Nato a Conegliano nel Trevigiano il 6 dicembre 1966, proprio nel giorno si San Nicola, De Vido è un big a tutto tondo: anche se in passato anche lui ha avito le sue difficoltà. Per moltissimo tempo è stato, assieme all'amico Enrico Marchi, a capo della diarchia che governava le sorti della Finint e dell'omonimo gruppo, ossia una delle boutique finanziarie più esclusive del Nordest.

Epperò stando all'esposto depositato in procura, De Vido, al momento della messa in liquidazione di Veneto banca si trova ad avere attraverso svariate società a lui riferibili una serie di pesantissime «esposizioni debitorie». Quanto? «Un ammontare complessivo di 73 milioni di euro».

Nel 2016 sempre De Vido, ben prima che Veneto banca finisca in liquidazione, invia a Montebelluna una proposta che prevede «l'integrale pagamento del debito». A margine avanza una sola richiesta. Quella di ottenere una dilazione per permettere allo stesso tycoon veneto di vendere le sue quote in seno a Fih spa, ossia la holding che detiene i pacchetti di controllo della gallassia Finint. I vertici di Veneto banca, così come viene documentato «dal verbale del Comitato esecutivo numero 34 del 27 maggio 2016» accettano la proposta. Sembra una vertenza destinata a risolversi facilmente. C'è un debito, ci sono i quattrini per coprirlo.

Maurizio Crema sul portale on line del Gazzettino del 19 settembre 2016 intervista l'altro patron di Finint, ossia Marchi. Il quale anzitutto precisa che la stessa Finint non ha nulla a che fare con la esposizione debitoria di De Vido, considerato spesso meno prudente dell'amico (anche se nel tempo i rapporti tra i due si sono raffreddati).

Al contempo però Marchi dà ad intendere che la partecipazione di De Vido in Finint vale comunque tantissimi soldi. Il che, a maggior ragione, fa pensare che la défaillance debitoria di De Vido sia solo passeggera proprio perché le spalle di quest'ultimo sono per l'appunto più che forti. Un anno dopo però accade una cosa a dir poco singolare. Come è noto Veneto banca («Veba» il nomignolo affibbiatole dagli analisti) finisce in liquidazione coatta. Ecco, proprio in quel momento preciso, o giù di lì, i commissari imboccano una strada che in seguito lascerà  basiti Ugone e il suo gruppo.

Come d'incanto i tre (all'epoca in plancia di comando siedono Alessandro Lepreux e Giuliana Scognamiglio mentre al loro fianco c'è il potentissimo Fabrizio Viola, già uomo chiave durante la crisi acuta di Mps e di BpVi) optano per mettere «la pratica De Vido» in cima alle priorità della liquidazione: procedura che è tuttora in corso peraltro. E in questo solco Lepreux, Scognamiglio e Viola decidono che, dei 73 milioni che le società a riconducibili a De Vido debbono alla stessa Lca, quelli che andranno effettivamente pretesi siano solo 39. Lo «sconto» ammonterebbe quindi a ben 34 milioni.

La giustificazione di questa sterzata tanto repentina va ricercata in una serie di «accordi transattivi», si lamenta Ugone, che portano la Lca a «stralciare quasi la metà del debito» che gravava sulle società di De Vido. Ancora, le ragioni di questa giravolta (fino a pochi mesi prima De Vido aveva promesso di ripagare interamente il dovuto) sono talmente poco chiare che Ugone è andato giù piatto: chiedendo espressamente alla procura di accendere i riflettori a disposizione dell'autorità giudiziaria. Anche la magistratura penale infatti ha molta voce in capitolo sulla materia fallimentare.

Per di più le parole di Ugone non lasciano spazio all'immaginazione: «In buona sostanza - si legge a pagina 3 dell'esposto - a un solo anno di distanza da quando il dottore De Vido si era espressamene impegnato... a rimborsare integralmente il proprio debito alla banca, riconoscendolo quindi espressamente... ovvero senza contestazioni di sorta... i liquidatori appena nominati procedevano a stralciare quasi la metà del debito rinunciando ad incassare» a favore della procedura, «la somma mancante».

IL MANAGER INCASSA «120 MILIONI»
Si tratta di parole che pesano come macigni cui si aggiunge un altro carico di briscola. Tutto ciò avveniva, denuncia instancabile Ugone, anche se «non ci fosse evidentemente alcuna fretta di chiudere la posizione, tanto è vero che la procedura di liquidazione è tutt'ora aperta». Come risulta evidente che non vi fossero ragioni apparenti «che giustificassero né la fretta né lo sconto applicato».

E non è finita. «Tra le motivazioni che risultano addotte» per giustificare lo stralcio, «vi è il fatto i crediti» vantati da Veba, «fossero oggetto di contestazioni formali di vario genere da parte di De Vido». Tuttavia «appare evidente» come tali contestazioni «non abbiano alcuna valenza al riguardo, essendo state sollevate solo nel 2017, ovvero dopo la promessa di pagamento dell'integrale debito», avanzata del debitore «nel 2016, promessa di pagamento che comportava il pieno riconoscimento» del debito stesso. In questo senso «le contestazioni successive «non hanno e non possono avere alcuna valenza e sono evidentemente meramente strumentali» quasi fossero state concepite «ad arte per permettere il successivo stralcio». Appresso c'è l'ultima bordata.

Relativamente alla difficoltosa esigibilità del credito vantato dalla Lca nei confronti di De Vido, nel verbale di specie relativo alla riunione dei commissari datato «3 agosto 2017», si evidenzia come di lì «a breve» lo stesso manager avrebbe incassato ben «120 milioni corrispondente al «controvalore della sua partecipazione in Fih - Finanziaria internazionale holding dalla quale stava uscendo cedendo le quote». Semplificando al massimo, gli attivisti di «Noi che credevamo...» si domandano: ma perché è stato stralciato il debito a De Vido quando quest'ultimo, di lì a poco, avrebbe incassato nientepopodimeno che 120 milioni per la vendita del pacchetto Finint? De Vido infatti, direttamente o per il tramite di alcune società, deteneva infatti la metà del pacchetto di controllo della cassaforte di Finint. L'altra metà era invece nel portafogli del suo amico e collega Enrico Marchi.

Sarà ora la magistratura a dover sbrogliare la matassa: mentre a Roma, dove il caso sta già facendo discutere nelle segrete della politica che conta, si parla di «un vergognoso guazzabuglio per il quale più d'uno dovrà fare ammenda». Chi scrive peraltro ha interpellato i vertici della Lca nonché il dottor Viola, come pure il procuratore capo di Treviso Marco Martani per conoscere il punto di vista di ciascuno: lo stesso dicasi per il dottore De Vido. Nessuno però, almeno per il momento, ha preferito commentare. Per vero Leproux, Scognamiglio e Vidau, non più tardi di ieri 11 aprile, hanno inviato a chi scrive una breve nota. Nella quale si fa presente come «in base alle norme di comportamento che abbiamo sottoscritto al momento dell'accettazione dell'incarico conferitoci dalla Banca d’Italia e che regolano la nostra funzione di commissari liquidatori, i nostri rapporti con la stampa e con i mass-media in genere richiedono la preventiva autorizzazione della suddetta autorità di vigilanza. Per il momento, dunque, non possiamo accogliere la Sua proposta» di intervista. Ad ogni modo altri particolari «dell'affaire Sconti pazzi», come il caso è stato ribattezzato in ambiente giudiziario, saranno oggetto della prossima inchiesta di Vicenzatoday.it.

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