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Cronaca Centro Storico / Ponte San Paolo

Vicenza noir: la sanguinosa rapina all'oreficeria Lovi

Quel colpo, avvenuto il 9 marzo '73, è rimasto nella storia non soltanto per la tragica fine degli ostaggi, Edda Fantin e Maria Luisa Vettore, che i tre banditi si portarono via nella fuga poi conclusasi con lo schianto fatale, ma anche (e forse soprattutto) come primo esempio di copertura mediatica

Erano circa le 14 di martedì 9 marzo quando gli operai della fonderia Dalli Cani di Creazzo, quelli che andavano a fare il secondo turno, furono testimoni dello schianto contro un albero lungo il tratto rettilineo di Tavernelle di una Alfa Romeo 1600 alla velocità stimata di 200 Km/h. Morirono tre rapinatori e due ostaggi, Maria Luisa Vettore di 18 anni e di Edda Fantini di 35. Era l’epilogo brutale di un tentativo di rapina avvenuto in una azienda commerciale orafa del centro di Vicenza, la LOVI di contrà san Paolo, tra mezzogiorno e l’una e mezza.

Durante la rapina i banditi si erano fatti consegnare due “valigie piene d’oro” corrispondenti più o meno a centocinquanta chili di peso. Un bagaglio non semplice da gestire e che è finito anch’esso contro l’albero. Dalle cronache non è noto che fine abbia fatto tutto quest’oro, né che fine abbiano fatto le armi, ma era tutto certamente disperso in giro per il campo e la strada, nella mota di quel terreno sul quale sono piovuti, fino ad oltre 200 metri, i resti dell’auto e dei corpi.

La banda che fece il colpo veniva da Milano ove la malavita era in fase di riorganizzazione dopo l’apparizione di Vallanzasca. Costui con la sua banda, detta della Comasina,  aveva infatti appena concluso il sequestro dell’industriale Pietro Torrielli. In quel nuovo clima, secondo alcuni, il settore perdente della criminalità, quel che restava della banda Barbero, cercava nuovi spazi. 

Il leader, uno dei morti nello schianto, era un ex poliziotto divenuto rapinatore, un detenuto che in quei giorni era in permesso da San Vittore. Si chiamava Michele Cretì ed era originario di Lecce. Della banda faceva parte anche un bassanese, Narciso Fraccaro che aveva il compito di palo, ma fece cilecca in una maniera un po’ strana. Egli, accortosi che dopo l’irruzione dei complici nel luogo della rapina un fattorino era riuscito a scappare ed evidentemente si apprestava a dare l’allarme, non avvertì nessuno nonostante la banda si fosse dotata di radio. La spiegazione processuale fu che egli non poté farlo per un errore dovuto al fatto che i suoi complici avevano “inavvertitamente” portato con loro, oltre alle armi, entrambe le ricetrasmittenti.

La cosa appare poco credibile per dei criminali di professione, uno dei quali, il Cretì appunto, aveva precedenti per ben 15 rapine, ma costituisce la versione ufficiale. Fatto sta che la polizia e i carabinieri arrivarono mentre i banditi erano ancora dentro, ma avevano già l’oro nelle valigie pronto per il trasporto. Dopo una sparatoria connessa con un tentativo di irruzione dei carabinieri ci fu una specie di trattativa tra l’interno e l’esterno che si protrasse per un’ora. Ciò avvenne sotto il controllo di tutte le autorità compreso il ministro degli interni Mariano Rumor in contatto telefonico da Roma. Il tutto sotto la direzione del prefetto Biondo e del Procuratore della repubblica Rende. Tale interlocuzione ebbe fine quando venne buttato all’esterno un fazzoletto intriso del sangue della signora Reato, una dei titolari, che era stata colpita alla testa col calcio di una pistola. Alle 13:30 era pronta con motore acceso e pieno di benzina la Alfa Romeo davanti all’uscita e i banditi vi entrarono con due ostaggi. Poi la fuga per ponte Furo, viale Eretenio ecc. fino alla tragica conclusione

Il giorno dopo venne catturato il Fraccaro e, dopo il suo interrogatorio, vennero catturati altri complici con ruoli minori. Seguirono processi e condanne, ma la famiglia proprietaria dell’azienda rapinata non si costituì mai parte civile.

LA FONTE

                                                                     

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