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Martedì, 16 Aprile 2024
Cronaca

Processo Pfas, il ciclone Noe si abbatte su «Miteni e Regione»

Al dibattimento per il maxi inquinamento da derivati del fluoro che ha colpito il Veneto centrale, uno degli investigatori di punta dei carabinieri ambientali ha stretto nella morsa della sua testimonianza la condotta degli enti pubblici tra cui palazzo Balbi, la Provincia berica e il Comune di Trissino, i quali, stando a quanto uscito dall'aula, avrebbero tentennato a fronte degli indizi di una contaminazione in atto di cui l'azienda imputata era a conoscenza da molto tempo prima

Il collasso ambientale da derivati del fluoro, «i temibili Pfas», che ha cominciato ad inghiottire la Miteni tra il 2013 e il 2014 e che da decenni compromette l'ecosistema del Veneto centrale con tutti i guai annessi sul piano della salute umana, era noto ai piani alti dell'azienda nonché ai soggetti che la controllavano. Ed era noto almeno dal periodo in cui questa stava passando di mano dalla vecchia proprietà giapponese della Mitsubishi alla nuova, ossia quella della Icig, il conglomerato finanziario germanico-lussemburghese che ha retto le sorti della ditta trissinese prima del suo fallimento. Tuttavia alcuni segni «evidenti» di questa rovina, oggi tramutatasi in uno dei più clamorosi scandali ambientali del Paese, erano in parte noti ben noti pure agli enti pubblici deputati ai controlli, anche se poi «nessuno ha fatto niente». È questo il succo della testimonianza resa ieri 26 maggio al processo Pfas da Manuel Tagliaferri, il maresciallo del Nucleo operativo ecologico dei carabinieri di Treviso, sulle cui spalle è gravata la gran parte delle indagini preliminari sull'inquinamento da sostanze perfluoroalchiliche, i Pfas appunto, che ha portato davanti alla corte d'assise di Vicenza quindici tra ex dirigenti ed ex manager dell'azienda o a questa riferibili: a vario titolo le accuse vanno dai reati ambientali alla bancarotta fraudolenta.

L'UDIENZA
Tagliaferri al tribunale di Vicenza ieri è stato ascoltato come teste dell'accusa, la quale durante la fase delle indagini preliminari era stata coordinata dai pubblici ministeri Hans Roderich Blattner e Barbara De Munari: i quali peraltro hanno continuato anche dopo l'inizio del dibattimento. L'escussione del dottor Tagliaferri sul piano della procedura processuale altro non è stata che la ricapitolazione delle fasi più essenziali di una indagine monstre che ha portato gli imputati davanti alla corte presieduta dalla dottoressa Antonella Crea. Una ricapitolazione, quella cui ha dato vita Tagliaferri, senza mai un momento di pausa: in cui per oltre cinque ore il maresciallo del Noe tra e-mail, documenti sequestrati, riferimenti normativi, annotazioni investigative, ha dato conto di quanto, almeno in parte,  era già emerso durante la fase delle stesse indagini preliminari.

Ossia i vertici aziendali e in parte i soggetti privati che controllavano sul piano societario la fabbrica trissinese, sapevano che l'acqua e l'ambiente quanto meno nei dintorni della ditta versavano in condizioni o critiche o addirittura da ascrivere ad una condotta illecita se non da codice penale. Un esempio per tutti? Tagliaferri menziona uno studio ambientale commissionato da Miteni ad una ditta specializzata, la Erm. Uno studio regolarmente pagato a fronte di «una fattura datata 11 febbraio 2009» vale a dire pochi giorni dopo il passaggio della fabbrica trissinese dalla proprietà di Mitsubishi a quella di Icig. Da quel momento, passano sì e no un paio di settimane, in marzo tecnici di Miteni e specialisti della stessa Erm interloquiscono tra di loro facendo riferimento a «una barriera idraulica». Qualunque specialista in materia ambientale sa che la barriera idraulica, quella usata lungo il confine sud della Miteni era di tipo «pump and treat» ossia aspira e purifica, è un dispositivo che in casi come questi viene utilizzato per contenere una contaminazione. Lo stesso maresciallo ha spiegato poi che tale contenimento non è mai stato potenziato sino a quando con il deflagrare del caso Pfas nel 2013 si mise mano proprio alla barriera idraulica. Si tratta di questioni di peso perché, sul piano astratto, l'imprenditore che non denuncia alle autorità una situazione di inquinamento ascrivibile alla sua attività, commentte un grave reato ambientale.

LA CONTRADDIZIONE E IL DETTAGLIO «MICIDIALE»
Quelle riferite dal maresciallo sono circostanze che in qualche modo cozzano con quanto asserito negli anni da Miteni. La quale aveva sempre sostenuto di essersi autodenunciata alle autorità preposte, era «il 23 luglio 2013», ma per responsabilità non ascrivibili alla gestione aziendale marchiata Icig. E soprattutto la società «in data 5 settembre 2013» aveva comunicato a chi di competenza che la barriera era stata realizzata o implementata appunto nel 2013 perché quello sarebbe stato il periodo in cui sarebbe venuta a conoscenza del problema Pfas nell'ambiente. In aula però Tagliaferri ha fatto notare un particolare definito «micidiale» dalle parti civili presenti tra il pubblico. Ossia che nella autodenuncia inviate alla stessa Arpav, Miteni spiegò come fosse stato «allineato un filtro a carbone», come fosse stata «aumentata la quantità di «acqua emunta in funzione della falda» e che il filtro a carbone impiegato fosse risalente a una «fornitura 2011». Una data anteriore quella del 2011 che, astrattamente quanto meno, avrebbe dovuto già allora insospettire i tecnici Arpav, rispetto al fatto che già una barriera di contenimento fosse attiva: e che quindi già allora Miteni fosse a conoscenza, questa l'ipotesi d'accusa, di come l'inquinamento fosse già in atto.

Ma questa asserita défaillance, la cui ombra si proietta sul passato di Arpav (che non è sotto processo come non è sotto processo alcun ente pubblico peraltro) non è che uno dei tanti indizi che avrebbero dovuto spingere gli enti pubblici a intervenire ben prima. Si tratta di una lettura che è stata confermata in aula proprio da Tagliaferri quando quest'ultimo ha menzionato due studi redatti attorno al 2011: il dottorato di un funzionario di Arpav e una ricerca nell'ambito «del Progetto giada» coordinato dalla Provincia di Vicenza, cui avevano partecipato o avuto cognizione tra gli altri Arpav e Comune di Trissino. Quelle due ricerche avevano evidenziato l'aumento in termini di possibile inquinamento di alcuni indici spia nell'ambito della falda che intercetta anche la Miteni. Quei dati non parlavano espressamente di Pfas, ma poiché Miteni dopo una condanna patita alla fine degli anni '70 per un differente caso di inquinamento da benzotrifloruri, «gli zii dei Pfas», era, almeno sulla carta, nel mirino delle istituzioni, come mai quegli alert non diedero alle autorità lo spunto per cercare di capire che cosa stesse davvero succedendo dentro e sotto la Miteni? «Nessuno fece nulla»: questo è quanto riferito in aula da Tagliaferri che in quel momento ha letteralmente raggelato l'uditorio.

Il problema per vero era già noto alla galassia ambientalista anche perché denunciato più volte da Greenpeace. Ma la conferma scolpita nelle parole di uno degli investigatori di punta del Noe veneto, ieri ha mandato in fibrillazione il mondo ecologista. Soprattutto perché gli indizi che gli enti pubblici fossero a conoscenza di elementi di criticità erano emersi già negli anni passati. Ed erano stati poi in parte confermati ancora da Tagliaferri nella udienza del 19 maggio.

LE BORDATE DEL 19 MAGGIO
Alcuni esempi? Le comunicazioni di scavo inviate da Miteni al Genio civile (il quale oggi è una emanazione della Regione) nel 1998; una comunicazione sull'emungimento dell'acqua inviata sempre al genio nel 2005, la vera «autodenuncia», per Tagliaferri;  e ancora i sopralluoghi di Arpav nei pressi della barriera idraulica. Sono solo una parte dello stillicidio di indizi che avrebbero dovuto indurre gli enti pubblici, a vario titolo, Regione Veneto, Provincia di Vicenza, Arpav, Comune di Trissino, ad accendere i riflettori sulla fabbrica trissinese «impedendole», reclama il fronte ecologista, «di aggravare la contaminazione». Si tratta di circostanze che potrebbero costituire una sorta di epilogo rispetto a due anticipazioni di Vicenzatoday.it. Che nel 2020 parlò di «pressioni sui vertici Arpav» per depotenziare gli accertamenti e che nel 2018 titolava così: «Caso Pfas, la Regione doveva intervenire già dal 2005». Dopo il tour de force di ieri una parte della galassia ecologista veneta è tornata a parlare di circostanze «che ormai pesano come pietre»: e di tempesta del Noe che si è abbattuta «su Miteni e Regione come sugli altri enti pubblici». Le udienze proseguiranno adesso nel mese di giugno.

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