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Cronaca

Caso Pfas? «Miteni vittima sacrificale»

Le difese della società al centro di un colossale processo per disastro ambientale spiegano come la natura dei reflui prodotti fosse stata comunicata agli enti gestori. I quali però in udienza replicano a muso duro definendo non sostanziata la lettura dei legali. E intanto emerge ancora il dramma della estrema difficoltà dei controlli nei confronti delle industrie chimiche da parte degli enti pubblici

Man mano che il dibattimento procede il processo per la maxi contaminazione ambientale da derivati del fluoro, i Pfas, addebitata alla Miteni di Trissino, diventa sempre più effervescente. Gli imputati, gli ex manager di Miteni e altri manager stranieri chiamati in sede civile come corresponsabili quali soggetti controllanti la compagine societaria della spa trissinese oggi fallita, durante l'udienza di ieri 4 febbraio per il tramite dei loro legali. Leonardo Cammarata, Ermenegildo Costabile, Novelio Furin, Salvatore Scuto e Raffaella di Meglio, tra gli altri che patrocinano una quindicina di imputati tra ex vertici della spa di Trissino e altri top manager che hanno avuto a che fare con gli assetti di controllo della società dell'Ovest vicentino.

L'OFFENSIVA
Secondo gli avvocati, Furin in primis, la Miteni va considerata una sorta di «capro espiatorio o di vittima sacrificale» giacché gli enti gestori del ciclo integrato dell'acqua già a partire «dal 1988» erano stati informati della presenza di Pfas nell'acqua che peraltro erano per nulla o scarsamente normati. Ancora Furin ha addebitato ai legali dei gestori del ciclo integrato dell'acqua, che nel processo sono parte civile, «di avere depositato alcune carte processuali senza dubbio incomplete» dalle quali mancherebbero appunto le indicazioni al centro della doglianza delle difese. La materia è abbastanza spinosa. Furin ai taccuini di Vicenzatoday.it ha spiegato di non muovere accuse da codice penale alle parti civili, tuttavia l'uscita delle difese ha provocato la reazione veemente dei legali di parte civile che hanno seccamente respinto al mittente la lettura fornita dalle difese. Tra le accuse mosse agli imputati, a vario titolo, ci sono il disastro ambientale e la bancarotta.

LA CONTROFFENSIVA
Marco Tonellotto, legale di Acque del Chiampo, uno degli avvocati di parte civile fra i più attivi in una breve nota diramata ieri è stato molto duro: «La manovra della difesa, che punta il dito contro il gestore, è priva di ogni fondamento: il sistema delle autorizzazioni rilasciate a Miteni indicava le sostanze che potevano essere scaricate, e tra queste non erano previsti i Pfas. Inoltre, Miteni con relazione tecnica aveva indicato i criteri tecnici di abbattimento di questi composti. Peraltro, proprio la testimonianza in aula di queste ore ha fatto emergere la circostanza che le sostanze in questione non avevano al tempo limiti normativi che ne consentissero lo scarico, essendo questi stati fissati solo molto dopo e in modo altamente prudenziale. Pertanto gli unici composti scaricabili erano quelli espressamente previsti in autorizzazione, secondo il principio vigente in materia ambientale, per cui è vietato ciò che non è autorizzato» Poi un'altra bordata: «Non dimentichiamo - conclude Tonellotto - che il processo è già iniziato, e che le società idriche sono già state individuate dagli stessi giudici come parti civili, cioè parti lese e non come responsabili».

Più nel dettaglio il legale vicentino ha fatto riferimento alle parole per certi versi drammatiche di Francesca Daprà la quale è stata chiamata sul banco dei testimoni dalla pubblica accusa rappresentata dai pm Barbara De Munari e Hans Blattner. Daprà, già direttrice per anni del dipartimento veneto dei laboratori Arpav e oggi a capo della direzione Arpav di Vicenza ha spiegato come i Pfas siano persistenti nell'ambiente e come queste molecole siano nocive per la salute, pur vantando caratteristiche industriali di tutto rispetto.

DEPOSIZIONE FIUME
La dirigente, provata anche per la lunghezza della deposizione, è apparsa molto incerta,  quasi imbarazzata, quando ha dovuto spiegare alla corte presieduta dal giudice Antonella Crea (che è spesso intervenuta affinché la teste precisasse meglio il suo pensiero) i contorni della questione degli standard. Quando infatti un laboratorio pubblico cerca nell'ambiente una sostanza inquinante ha bisogno di una sostanza pura di confronto per poter istruire il macchinario nella ricerca del composto finito sotto la lente di ingrandimento.

IL TABÙ
Il problema però, che è noto agli addetti ai lavori come una sorta «di tabù» e che è stato raccontato da Vicenzatoday.it a più riprese, è che questi standard (o chemical benchmark kit come vengono chiamati da alcuni ricercatori anglosassoni) spesso non sono acquisibili dagli enti di controllo perché le aziende produttrici non li rendono disponibili con la motivazione, speciosa secondo gli ambientalisti, per cui sarebbero coperti da brevetto. Motivo per cui in alcuni casi l'ente pubblico può ricercare una certa sostanza solo se il kit è disponibile a pagamento presso un database privato. In mancanza di questo l'ente pubblico che volesse compiere alcune verifiche sarebbe costretto a rivolgersi direttamente all'azienda che lo produce. La quale, potrebbe non essere d'accordo nel fornire lo standard. Di più nel caso di indagini amministrative di un certo peso o di indagini penali in corso chiedere alla ditta oggetto di un accertamento un certo kit potrebbe equivalere a metterla sul chi va là rispetto ad una eventuale indagine in corso che peraltro è coperta dal segreto istruttorio.

INCHIESTA PARALLELA
In questo senso i tentennamenti della Daprà in aula hanno poco a che fare col processo in corso: ma hanno molto a che fare con un inchiesta parallela sul caso Miteni in relazione a presunte omissioni in materia di controlli da addebitare ad alcuni ali funzionari di Arpav Veneto. Inchiesta rimasta «nascosta per lungo tempo» e che poi era finita archiviata per ordine del gip di Vicenza. Una archiviazione riportata dalla Commissione ecomafie che aveva mandato su tutte le furie il fronte ambientalista. Ora rimane da vedere se la deposizione della attuale dirigente di Arpav Vicenza possa finire o meno in un eventuale nuovo fascicolo penale che potrebbe aprirsi a breve. Sullo sfondo però rimangono le voci di corridoio che girano da settimane a Borgo Berga. Voci secondo le quali l'attuale procuratore capo Lino Giorgio Bruno, giunto a Vicenza solo di recente, avrebbe mal digerito la richiesta di archiviazione avanzata dal sostituto procuratore e poi avallata dal giudice delle indagini preliminari (l'archiviazione avvenne quando Bruno non era in forza alla procura berica per vero). Da giorni peraltro si parla della volontà di alcuni legali delle difese di chiedere l'accesso a quel fascicolo perché contenente elementi a discolpa degli indagati. Ad una prima richiesta di accesso sarebbe stato opposto un diniego, questi almeno sono i boatos di palazzo. Ma non è detto che in futuro ci possano essere altre istanze di accesso. Il che potrebbe aprire un nuovo fronte tra difese e procura. Per di più, da alcune voci che giungono dalla capitale, alcuni componenti della Commissione ecomafie avrebbero potuto visionare l'intero fascicolo archiviato a Vicenza rimanendo scandalizzati sia dalla richiesta di archiviazione sia dalla condotta dei funzionari pubblici oggetto dell'indagine.

IL CUL DE SAC
Tuttavia dalla narrazione processuale emerge un dato che per l'ennesima volta ha scatenato il fronte ambientalista. Il ragionamento è presto fatto. Se è vero come testimonia la Daprà, che da anni le agenzie ambientali regionali, le direzioni ambientali regionali e le articolazioni centrali del Ministero dell'ambiente, conoscono alla perfezione il cui de sac relativo al reperimento degli standard, perché il legislatore nazionale e quello regionale non si sono mai mossi per vincolare il rilascio le autorizzazioni ambientali e quelle urbanistiche alla consegna dei kit di controllo agli enti preposti? La vicenda è parecchio dibattuta anche fuori dai confini veneti (ne ha parlato di recente Radio Atlanta Milano in uno speciale condotto da Tony Graffio).

QUESTIONI DI FONDO
Sullo sfondo poi rimangono anche due temi irrisolti. La questione di limiti ai Pfas e quella relativa alla sorveglianza medica per quanto concerne la presenza di queste molecole nel sangue di chi risiede in quei comuni tra Veronese, Vicentino e Padovano colpiti dalla contaminazione da Pfas ascritta alla Miteni. I contraccolpi sulla salute umana sono allo studio da anni. Tra gli aspetti che più preoccupano gli scienziati (a partire dal professor Carlo Foresta dell'Università di Padova uno dei pionieri italiani in questo senso) c'è l'azione di disturbo dei Pfas sugli ormoni umani. Interferire sugli ormoni significa, tra le altre, mettere a soqquadro la chimica del corpo umano, con tutto ciò che ne consegue.

LE STAFFILATE DI LEGAMBIENTE
Ad ogni modo sulla questione dei limiti è intervenuto il padovano Luigi Lazzaro, presidente di Legambinete per il Veneto. La sua presa di posizione, esplicitata in una nota diramata ieri è molto netta: «A seguito delle notizie riguardo presunte irregolarità che hanno gettato discredito sulla filiera dei controlli di Arpav e quelle avanzate in udienza verso il gestore idrico vicentino Viacque, Legambiente ritiene importante verificare eventuali irregolarità o responsabilità individuali, ma al tempo stesso tiene la barra dritta e chiede di mantenere l'attenzione su origine e responsabilità dell'inquinamento, che la magistratura ha già attribuito in massima parte alla Miteni».

Per l'associazione ambientalista rappresentata nel processo in corso dall'avvocato Enrico Varali, coordinatore del Centro di azione giuridica regionale di Legambiente, deve restare alta per fare chiarezza e giustizia, senza distogliere l'attenzione dal problema principale. «La falda, le acque superficiali e le acque potabili come quelle utilizzate dall'agricoltura e dall'industria in un'area abitata da almeno 300mila persone, sono state contaminate da Pfas e da C604 e GenX. Un inquinamento che ha cause e origini che devono essere identificate e confermate dalla magistratura nelle aule del tribunale di Vicenza, per questo Legambiente rilancia la necessità di un impegno deciso collettivo di pubblici ministeri e parti civili teso a sostanziare le responsabilità puntuali di questo gravissimo inquinamento ambientale e sanitario, che attanaglia l'ecosistema, affligge migliaia di persone ed espone al rischio default il tessuto economico di una vasta porzione di Veneto».

Ad ogni buon conto Legambiente alla parte critica affianca una più costruttiva che si dispiega in un sollecito indirizzato a palazzo Balbi e a palazzo Ferro Fini: «La legge regionale 25 del 2021 approvata dalla Regione Piemonte con l'articolo 74 introduce valori limiti di emissione allo scarico nelle acque superficiali per i composti appartenenti alla categoria delle sostanze perfluoroalchiliche ossia i Pfas: che cosa aspettano il presidente della giunta regionale Luca Zaia ed il Consiglio Regionale Veneto a fare altrettanto? Questa legge di iniziativa regionale, non impugnata dal Governo - continua ad incalzare Lazzaro - è un passo in avanti per la tutela della salute degli ecosistemi dall'inquinamento da Pfas, che deve portare verso l'eliminazione di questi inquinanti dalle nostre acque». Ma la bacchettata più sonora Lazzaro la indirizza al Ministero dell'ambiente nonché a palazzo Chigi: «Un richiamo ancora più forte Legambiente lo indirizza anche al Governo, perché il divieto o la limitazione di questi pericolosi composti chimici tornino ad essere una priorità politica dell'agire del Ministero alla transizione Ecologica. Oltre alle leggi regionali è quanto mai necessario e urgente che si proceda portando a compimento il percorso iniziato con il tavolo tecnico che si era aperto al ministero - conclude Lazzaro - per una norma nazionale che limiti l'emissione dei Pfas nelle acque. Il governo deve assumersi la responsabilità nazionale che gli spetta».

LE BORDATE DEL CILLSA
Nei confronti di palazzo Balbi vanno poi registrate le critiche di Cillsa, una associazione ambientalista molto attiva nell'Ovest vicentino. La quale di recente sul suo blog ha pubblicato un intervento molto caustico. Nel quale sostanzialmente si accusa la Regione Veneto di non permettere a moltissimi cittadini di eseguire le analisi atte a rilevare concentrazioni di Pfas nel sangue più o meno preoccupanti.

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