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Giovedì, 28 Marzo 2024
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Telecamere «spia» cinesi? Usate «in tutto il Veneto»

Secondo l'esperto Carlo Alberto Sartor l'utilizzo «massivo» dei dispositivi di sorveglianza prodotti in Estremo oriente e finiti al centro di una inchiesta di Report è molto diffuso nel Nordest anche nelle sedi istituzionali. A preoccupare è la connessione al web degli apparecchi: tuttavia il problema «è noto da almeno un decennio»

Alcuni giorni fa Report la popolare trasmissione dedicata al giornalismo investigativo ha mandato in onda una puntata che ha fatto molto clamore: al centro della quale c'è stato il tema, molto dibattuto, della sorveglianza di massa (si è parlato anche di telecamere «spia») che le potenze straniere operano nei confronti del Belpaese. Nella inchiesta firmata da Cataldo Ciccolella e Giulio Valesini è stato approfondito il tema delle telecamere cinesi in grado di connettersi, in maniera borderline rispetto al dettato della legge, alla madrepatria dopo aver raccolto dati e immagini sensibili.

Più in generale il tema della sorveglianza di massa, sia per fini politici sia per fini commerciali (quando i due ambiti non si sovrappongono) è un campo da anni molto dibattuto che in qualche modo è entrato nell'immaginario collettivo con alcuni film come «Snowden» diretto da Olver Stone o con la pubblicazione di alcuni libri come il best seller della della sociologa statunitense Shoshanna Zuboff (Il capitalismo della sorveglianza) o quello del filosofo italo-inglese Luciano Floridi (The onlife manifesto). Sempre la Tv di Stato con Presa diretta ha lasciato il segno nella divulgazione di specie grazie alle puntate mandate in onda («Mercenari digitali» del 20 gennaio 2020 firmata da Elena Kaniadakis, Lidia Sirna e Eleonora Zocca e «Tutti spiati» firmata da Danilo Procaccianti il 10 febbraio 2020) l'anno passato.

Carlo Alberto Sartor, vicentino, è un esperto di sicurezza digitale: ai taccuini di Vicenzatoday.it spiega di non essere più di tanto «sorpreso per quanto narrato nella puntata di Report» e aggiunge che le telecamere finite nel mirino dei giornalisti, nel Vicentino come nel resto del Veneto, vengono usate parecchio: sia da soggetti privati sia da enti pubblici e dalle stesse istituzioni.

Dunque Carlo Alberto, tu hai visto la puntata di Report sulle telecamere cinesi? La questione tra gli specialisti è nota da tempo. Però il clamore è stato tantissimo. Come mai secondo te?
«Ho visto una parte della puntata perché per me la questione delle telecamere cinesi che fanno da ponte per eventuali acquisizioni di informazioni è un argomento appunto assai datato, direi che la cosa è ben nota agli specialisti e all'intelligence da almeno una decina d'anni».

E quindi?
«Trovo che il clamore sul fatto specifico sia figlio d'una drammatica constatazione dell'Occidente di essere tecnologicamente alla mercé della Cina, della Corea e di altri paesi dell'Estremo oriente. Paesi dove le tecnologie informatiche sono realizzate e progettate, rendendo di fatto lo stesso Occidente succube delle decisioni strategiche che questi paesi prendono. Tra queste decisioni anche quella di raccogliere informazioni in modo occulto, oltre che dichiarato».

Da una decina di anni i cinesi vendono queste camere in Italia a gran profusione. La Cina quanti dati può avere accumulato sul nostro sistema Paese? Come deve confrontarsi l'Italia con questa realtà?
«Effettivamente sono decenni che progettazione e produzione microelettronica sono appannaggio praticamente esclusivo di questi paesi. Negli anni '70 e '80, quando acquistavo i miei primi circuiti integrati digitali, erano sempre prodotti da Cina, Vietnam, Malesia e zone limitrofe. E le cose non sono cambiate. Non capisco come l'Occidente possa svegliarsi solo ora da un sonno industriale lungo cinquant'anni, sonno durante il  quale ha comprato e venduto tecnologie passandole per proprie ma in realtà prodotte altrove, senza mai fare una riflessione strategica».

Si può quindi dire che ormai il dado è tratto?
«Direi di sì dato che alla produzione dell'hardware si deve associare quella del software, è evidente che l'industria dell'Estremo oriente fa esattamente quello che vuole, non c'è da meravigliarsi, quindi, se queste nazioni fanno propri modelli di acquisizioni massive di dati sulle orme dei dei maestri, chiamiamoli così russi ed americani».

Quello che dici però obbliga tutti i cittadini a fare una profonda riflessione. Nell'immaginario collettivo il principale soggetto pronto ad acquisire informazioni di ogni tipo proviene dagli Usa. Ma c'è dell'altro?
«È chiaro che l'archetipo dell'ente governativo americano per la sicurezza nazionale, parlo della Nsa, che da decenni raccoglie massivamente dati su ognuno di noi, spiando in ogni modo i nostri pensieri e le nostre azioni tramite ogni possibile elemento tecnologico, paradossalmente andrebbe rivisto e corretto».

Perché?
«Perché tale acquisizione massiva di dati avviene passando tramite dispositivi prodotti in Estremo oriente, dei quali non è così fantascientifico attendersi una silente ma efficacissima raccolta parallela di informazioni, se non peggio».

Alzando un attimo lo sguardo al cielo quante telecamere si incontrano? Occorrerebbe conoscerne la marca per sapere se possono spiarci come è capitato con le accuse lanciate contro Hikvision come ha mostrato Report?
«Parlare di marche, in questo ambito, lo trovo una assurdità. Il problema non riguarda solo Hikvision ma è trasversale e, soprattutto, non ha senso delimitarlo solo alle telecamere. Oggi qualunque pezzo di tecnologia può essere sfruttato per raccogliere informazioni personali, aziendali, statali».

E poi?
«Saltando a piè pari la situazione è altrettanto angosciante anche per quanto riguarda gli smartphones: non esiste un chip che non sia prodotto in Estremo oriente. E ancora, per fare tutto ciò basta una centralina di un'auto, uno smartwatch. Possono bastare le capacità comunicative di un monopattino elettrico o di un qualunque assistente domestico come Alexa Amazon per raccogliere informazioni massive e preoccupanti sotto vari profili strategici. Di che cosa stiamo parlando quindi?».

Carlo tu in passato ti sei sempre soffermato sul problema della permeabilità delle infrastrutture elettroniche questa tua considerazione come può essere messa in relazione alle polemiche di questi giorni?
«È chiaro che il problema vada visto in modo più ampio. Il rischio che una telecamera cinese porti una quota parte delle informazioni in Cina, ovviamente esiste ed è grande. E il rischio o la certezza c'è anche con altri soggetti legati a Stati come  gli Usa, la Russia, Israele e in generale a tutti gli Stati i quali per ragioni intrinseche alla natura del potere possono fare ricorso o fanno già ricorso a condotte di questo tipo. Ma c'è anche un altro rischio a mio modo di vedere è sottovalutato».

Parli del crimine informatico? Degli hacker?
«Sì esatto. Il rischio che queste condotte deprecabili siano ascrivibili anche da parte di terzi soggetti, molto meno identificabili di soggetti legati alla sfera pubblica c'è: non nascondiamocelo. Già oggi gli esempi non mancano».

In questo senso che cosa ti preoccupa?
«Diciamo così. Già è preoccupante il fatto che alcune nazioni facciano dossieraggio massivo, ma almeno sono nazioni, soggetti ben identificabili. Se invece questa raccolta venisse attuata da organizzazioni criminali? Se l'utilizzo di tali dati fosse condotto senza scrupoli? Saremmo di fronte a centri di potere occulti. Il che è un grande problema soprattutto quando questi si ibridano con i pubblici poteri o con quelli economici. Non è fantascienza».

Detto in altri termini la figura dell'hacker solitario che compie un attacco ottiene il suo scopo illecito è un mero cliché. Tu da tempo denunci il fatto che il crimine informatico organizzato stia acquisendo un peso incalcolabile man mano che la tecnologia avviluppa ogni ambito della vita quotidiana dei cittadini. È così?
«Sì senza dubbio, queste multinazionali del crimine più si ramificano più acquisiscono potere».

Processare tutte queste informazioni, raccolte illegalmente o legalmente è un altro discorso, energeticamente quanto costa e quanto costerà al pianeta in termini energetico-ambientali?
«Il discorso del costo energetico della manipolazione delle informazioni è in effetti un problema, di cui peraltro il relativo costo della gestione di questi dati spionistici, chiamiamoli così, non credo abbia un peso importante. Di contro, parlando più in generale,  il costo energetico delle tecnologie informatiche per gli usi correnti è enorme. Qualche data-centre importante non cambia di molto il bilancio complessivo che è sì preoccupante».

Tornando alla vita di tutti giorni. Se passeggiamo per Vicenza o per i principali centri del Veneto come Venezia, Padova, Verona, Treviso, Bassano, Rovigo, Belluno, Montebelluna, Cittadella tanto per dire dei nomi, quali sono le telecamere Hikvision che si incontrano? Ce ne sono anche nei palazzi di giustizia? Con quali rischi? Come va valutato il fatto che le camere Hikvision controllino anche molte sale intercettazioni delle procure italiane?
«Debbo ribadire ancora una volta che il terreno di gioco, e quindi di scontro se vogliamo, è ben più ampio. L'utilizzo massivo di telecamere nelle nostre città, a partire da quelle di tutto il Veneto, rende critica la sicurezza delle immagini che vengono raccolte: ma rende anche critica la sicurezza delle infrastrutture informatiche su cui sono connesse. Purtroppo una consuetudine pessima vede queste telecamere connesse direttamente alla rete aziendale, cosa che agevola l'esfiltrazione di immagini all'esterno ma che permette anche di intrudere, di bucare la rete aziendale, con raccolta di dati aziendali».

Questo succede anche nel caso di enti pubblici come comuni, tribunali, sedi delle forze dell'ordine?
«Sì. Per questo non mi stancherò mai di dire che sarebbe indispensabile usare per le telecamere una rete separata e uso una terminologia un po' grezza per essere compreso non connessa ad internet: cosa che pero' aziende ed enti si rifiutano regolarmente di fare. E a Vicenza siamo messi male, su questo fronte: privato o pubblico che sia l'ambito».

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