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Il sigillo - 3 - Un morto che parla

Due cadaveri a Campo Marzo, due esecuzioni di matrice mafiosa. La polizia indaga e lo fa anche il reporter Ruiz, tra il San Bortolo e i bar della mala

Capitolo 1 - I Senza Nome

Capitolo 2 - Stimmate Calibro 22

L’uomo annusò i suoi guanti neri in pelle come fossero un feticcio. Sentiva ancora forte l’odore della polvere da sparo. Li guardò e li mise in un cassetto della sua scrivania. Era stato tutto perfetto: il rapimento dei due “pentiti”, il marchio lasciato sulle mani, il trasferimento fino a Campo Marzo, l’esecuzione e la bonifica dei loro abiti. Tutto senza fare troppo rumore, senza testimoni e senza incrociare qualche volante o qualche gazzella dei carabinieri. Il suo segreto era ancora nelle sue mani e in quelle dei suoi due uomini di fiducia.

Dei votati, dei fedeli al Sigillo e alle loro profumate paghe da “spazzini di morte”. Si alzò dalla sua poltrona bianca e guardò dalla finestra del suo lussuoso appartamento all’ultimo piano del grattacielo Everest, dove l’orizzonte si perdeva sulle case e sulla Basilica Palladiana. Era sua la città, senza che nessuno lo sapesse. Senza che si sospettasse nulla di chi fosse, di cosa facesse. Di quanto questa sua seconda identità fosse diversa da quella ufficiale. Era parte di qualcosa di più grande che gli aveva regalato tutto chiedendo in cambio solo l’anima. Poi prese la pistola che era dentro a un cassetto, la chiuse in una cassaforte a muro e uscì.

“Giacinto buongiorno “– disse Ruiz entrando nel reparto di medicina legale dell’ospedale San Bortolo – “ Non dirmi niente, anzi, dimmi tutto”

“Ruiz, va via da qua bocia (ragazzo). Non è aria. So cosa vuoi ma non posso dirti niente. Sono solo un infermiere, manda una richiesta scritta”

“Dai Giacinto, non fare il mona con me. Sai che non mi diranno niente se non la versione ufficiale. Sei ancora in debito con me, te la devo ricordare quella sera a Venezia? Ti ho salvato il culo dai cambisti di Felicetto. E ancora mi tratti così?”

“È una cosa grossa Ruiz, non è il solito incidente o una rapina finita male. Nessuno dice niente. Non so niente”

“Allora facciamo così, io vado al bar e ti aspetto lì. Se entro un’ora non sei arrivato vado via. Ma se non arrivi la prossima volta che ti vogliono buttare in canale li lascio fare. Dovresti smetterla con sto vizio delle roulette. Finisci male prima o poi”

Passano quasi quaranta minuti prima che Giacinto si affacci alla porta del bar. Si siede al tavolo vicino a Ruiz e appoggia una cartellina rosa sulla sedia. Prende un caffè, lancia un’occhiata severa al reporter e va via senza dire una parola. Ruiz non perde tempo, la prende, la infila nella sua borsa a tracolla e con passo spedito esce dal bar e dall’ospedale.

“Bravo Giacinto, hai fatto anche più di quello che mi serviva” pensa Ruiz mentre legge velocemente i referti autoptici. Ma è sulle foto che la sua attenzione si ferma, su quelle della vittima ancora senza nome. “L’ho già visto. Ne son sicuro. È qualcuno che ho incontrato da qualche parte. Ma dove?” Ruiz si ferma in una paninoteca vicino a Porta Santa Lucia e dopo aver ordinato una birra chiude gli occhi per cercare nella mente quel volto, il contesto, il luogo. È il cameriere con il tintinnio dei bicchieri che lo fa vibrare, come fosse un gong.

“Si. È lui!! Claudio…..Barbato o Bardato. Il ragioniere dei mercati generali, quello che “cura” gli affari di alcuni personaggi poco raccomandabili che hanno dei banchi della frutta. Si, ne sono sicuro. Brindammo a Capodanno di due anni fa, al casinò di Venezia. Perse una fortuna quella sera”

Con lo sguardo di chi sa di aver fatto un bel colpo beve la birra in un sorso e chiede di usare il telefono a scatti del locale. Chiama il suo caporedattore a Milano per dirgli le novità e si dilegua con la bicicletta verso la zona del Mercato Nuovo. Ora sa che pista seguire. Quando Lunardon entra dal cancello della Questura, sono circa le 16. Si accorge subito che il numero di persone con taccuini e telecamere si è ingrossato sui gradini dell’entrata e non vuole certo essere lui a finire nei telegiornali della sera con un “no comment”. Con i giubbetti chiusi fino al naso e con le sciarpe intorno al collo, una ventina di reporter e operatori sta aspettando il questore o qualche dirigente che possa fornire qualche novità. Ci sono tutti, dal Corriere della Sera a Repubblica, dalla Rai a Fininvest fino a Telemontecarlo.

Lunardon ingrana la prima e passa davanti a questi che non si accorgono di nulla, finendo nel parcheggio riservato ai furgoni della penitenziaria e della Celere. Nota la Bmw del suo “capo” e tira un sospiro di sollievo. La grana non è più solo sua e la faccia la metterà lui.

"Dottor Brizzi, bentornato. Le passo volentieri tutto l’incartamento circa le indagini che abbiamo svolto fino adesso. Ai piani alti dicono “mafia” ma qui di mafioso vedo ben poco. È altro. È rituale quasi, forse non è neanche italiana la firma sugli omicidi”.

Brizzi sorride mentre inizia a sfogliare il fascicolo. Sorride sempre Brizzi. Per lui è sempre tutto normale. È romano, 45 anni, con capelli corti e scuri che tiene con la riga da una parte. Giacca di buona finitura e una cravatta di Marinella. Veste sempre elegante il capo della Squadra Mobile, è sempre molto rilassato e disponibile. Adora i cronografi che gli riempiono il polso come avesse una padella ma ha dimestichezza nel suo lavoro e una furbizia che lo rende quasi temibile. I suoi occhi sono sfuggenti ma allo stesso tempo vigili su chi gli sta davanti.

“Fate fare un disegno del volto della vittima senza nome e datelo ai giornalisti che lo pubblichino. Così si placano e si rendono utili. Io vado dal Questore “ “I confidenti dottore? Li sentiamo?”

“Si Lunardon, ognuno i suoi. Sentiteli e poi riferitemi tutto. Mafia o non mafia qualcosa deve saltare fuori. Stiamo girando intorno al nulla e non possiamo permettercelo. Sentite i colleghi di Padova per sapere di cosa trattava ultimamente il “picinin”, con chi girava e che agganci aveva qui in città”.

Ruiz scende dalla bicicletta che è già buio. Sul piazzale antistante i mercati generali, la luce del bar sembra una lanterna. Accende una sigaretta e da una decina di metri cerca di guardare all’interno come se cercasse qualcuno. Il vociare della gente al bancone, e quella seduta ai tavoli mentre gioca a carte, trapassa la vetrata. C’è una “fauna umana” di tutto rispetto, volti che han poco da spiegare. Sono fedine penali che parlano, tra pareti ingiallite dal fumo e quell’odore di sigarette fumate una dietro l’altra lasciate in portacenere pieni.

Quando entra il reporter la sala si ammutolisce, qualcuno prende velocemente la strada del bagno e altri iniziano a squadrarlo dalla testa ai piedi. Con i suoi capelli lunghi, la sua barba incolta e il suo giubbetto in pelle nero Ruiz non è mai passato inosservato. In qualunque posto metta piede c’è chi lo scambia per un criminale e chi per una guardia in borghese.

“Bella signora mi fa uno spritz bianco per favore?”

“Certo caro, ne vuto uno onesto o uno da infamon?”

“Onesto, onesto bionda. Non son na guardia mi”

Prende il bicchiere pieno fino all’orlo. Con la coda dell’occhio guarda a destra e sinistra cercando una faccia “amica” tra i giocatori di carte che si sono rimessi a bestemmiare e a battere le carte sui tavoli consumati dagli anni. “Eccolo il mio jolly. La mia matta” pensa riconoscendo tra i giocatori la faccia “amica” che cercava. È Corsello.

Lui non era un personaggio qualunque nel mondo criminale vicentino. Era un napoletano che da anni abitava sotto l’ombra del Palladio. Pregiudicato di vecchio corso gestiva quasi tutti i traffici piccoli o grandi all’interno del mercato. Era un cinquantenne con capelli biondi e ricci. Al collo teneva un ciondolo d’oro con l’effige del Duce. Cambiava assegni al 10% di interessi ed era un giocatore di poker accanito e pericoloso. Non sempre pagava se perdeva e recuperare i soldi vinti a lui era qualcosa che rasentava l’impresa.

Ruiz prende il bicchiere e si dirige senza remore al suo tavolo. Si siede proprio davanti a lui mentre i suoi compari si dileguano velocemente dopo un suo cenno. Non guarda in faccia il suo nuovo ospite. Mischia le carte in continuazione come se fosse un meccanismo automatico senza fine.

“Ruiz, fai troppo casino quando entri in un posto, spaventi la gente perbene…”

“Corsello, lo sai come sono. Ho una faccia sola e lascio decidere a chi mi guarda da che parte sto della barricata”

“Si, ma tu lo sai veramente da che parte stai?”

“Io sto dalla parte di chi vuole sapere chi ha fatto fuori le due persone a Campo Marzo. E voglio sapere se uno di quelli ammazzati è uno di quelli che bazzicava qui, il ragioniere”

“E che ne so io. Per chi mi hai preso? Per un mago?”

“Guarda la foto Corsello..lo riconosci?”

Il napoletano guarda dentro la cartellina, la allontana un po’ e alza il sopracciglio

“Si, è lui. È Claudio Barbato. Brutta fine per un colletto bianco. Ma io l’avevo detto a lui che stava facendo un gioco pericoloso”

“Che gioco?”

“Ruiz, per chi mi hai preso? Per un confidente?”

“Corsello, mi devi un milione che hai perso due mesi fa. Fai il buono e vedo di dimenticarlo. Sai quanto posso essere insistente…”

“Oh mezzo spagnolo del cazzo, che vuoi? Minacciarmi? Lo sai quante gambe hai e lo sai che non si aggiustano da un giorno all’altro?”

“Ok, ok ...fai come vuoi. Inizia a mettere da parte i soldi che mi devi se non vuoi che ti sputtani per tutte le bische del Veneto”

Ruiz si alza, va verso la porta, si gira guardando la barista e chiosa: “Bionda, paga lui il mio spritz”.

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