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Venerdì, 19 Aprile 2024
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Il sigillo - 1 - I senzanome

Il primo capitolo del noir dell'estate: una storia di sangue e mistero ambientata a Vicenza che ha come protagonista il reporter Alessandro Ruiz

IL SIGILLO

Centro storico di Vicenza, ore 4.40.

Un uomo si diresse verso le volte del Palazzo delle Poste. Il rumore delle sue scarpe di cuoio sui sampietrini era ritmico, quasi da parata. Guardò se la cesta dei resi dell’edicola fosse vuota e andò verso l’entrata degli uffici postali. Non c’era fretta, non c’era ansia nei suoi movimenti. Sembrava un copione scritto bene, dove ogni passo era calibrato, studiato, provato. Si fermò davanti a un telefono pubblico ed estrasse dei guanti neri in pelle da una confezione di nylon, inserì una scheda telefonica e compose un numero.

Pronto 118, mi dica

Ci sono due corpi senza vita sull’argine del Bacchiglione

È sicuro che siano due persone? Dove esattamente?

A Campo Marzo

Mi dia il suo nominativo che adesso facciamo arrivare l’ambulanza e una volante.

Non ci fu risposta, solo il silenzio di una telefonata interrotta. L’uomo tolse i guanti, riprese la scheda e scivolò verso Contrà Pasini.

L’operatore del 118 si mise subito in contatto con l’ambulanza e la questura. Da Viale Mazzini partirono a sirene spiegate due “pantere” del reparto Volanti. Dopo una ventina di minuti, i due corpi furono ritrovati riversi faccia a terra, dietro il caffe Moresco, a qualche metro dai vecchi bagni pubblici. Meta di maniaci sessuali e tossici di passaggio. Il gracchiare delle autoradio ruppe il silenzio del parco in una fredda mattina di dicembre.

Era il 1992, l’anno di Mani Pulite e dell’avviso di garanzia a Bettino Craxi, l’anno del successo planetario dei Nirvana, dell'esordio cult di Tarantino con “Le iene”. Nella piccola ma opulenta città del Palladio, era la stagione che poteva riportare il Lanerossi Vicenza in serie B e per le strade il numero delle macchine di grossa cilindrata, superava le utilitarie.

Erano quasi le sei e i primi pendolari si stavano già dirigendo con passo svelto verso la stazione dei treni. Solo la luce dei lampeggianti colorava il parco di un blu sinistro, freddo. Le macchine della polizia si moltiplicarono in fretta e dopo circa mezz’ora arrivò la squadra mobile, la scientifica e il magistrato di turno. Chiuso nella sua sciarpa e nel suo elegante cappotto blu. La zona venne delimitata per un centinaio di metri e degli studenti curiosi poterono vedere solo due lenzuola bianche, in lontananza. Immagini che ricordavano i corpi straziati e coperti visti e rivisti in tv a Palermo, pochi mesi prima in via D’Amelio e prima ancora a Capaci.

Ma Vicenza era lontana e il suo boom economico la rendeva impermeabile alla guerra che la mafia aveva dichiarato allo Stato. Qui sventolava il Leone della Serenissima e tanto bastava per pensare di essere immuni a tutto questo.

Le sue scarpe di cuoio scivolavano sull’erba bagnata dalla brina. Era infastidito il dottor Priante, da dieci anni magistrato in questa città dove aveva trattato solo casi di truffa ed evasione nel campo dell’oro e non aveva mai visto un cadavere. A pochi metri da lui, gli uomini della scientifica stavano controllando i due corpi e il terreno circostante per analizzare una scena del crimine che si stava rivelando insidiosa: le due vittime avevano entrambi due fori, d’entrata e d’uscita, dalla testa. Dall’alto verso il basso.

Non erano soltanto stati uccisi, la loro era stata un’esecuzione in puro stile mafioso. Con un particolare in più: la mano destra di entrambe le vittime avevano un foro, come una stimmate. Ovviamente, dei documenti nemmeno l’ombra.

“Dottor Priante, penso che si debba avvertire la direzione distrettuale antimafia della procura di Venezia - disse a bassa voce l’ispettore capo Lunardon, una vita nella squadra mobile delle questure di mezza Italia e finalmente avvicinato a casa da sei mesi. “

“Mi sembra ovvio ispettore - rispose stizzito Priante - mi faccia avere tutti i riscontri del caso. Trovate i proiettili e mandateli alla balistica. Io vado in ufficio che non voglio passare il Natale a letto con la febbre. E per Dio, trovate i nomi di questi due. Non possiamo stare ore senza sapere almeno chi sono”. 

Priante si alzò la sciarpa fino alla bocca e  mentre stava lasciando la scena del crimine si girò di scatto verso l’ispettore capo: "Lunardon ma perché non c’è il dottor Brizzi? È o non è ancora il capo della mobile? Con due cadaveri dovrebbe essere lui a coordinare le indagini”. 

“Il dottor Brizzi si è preso qualche giorno di ferie e rientrerà domani. Comunque le porterò io l’Informativa, di persona.”

Ormai la notizia stava circolando e i telex delle redazioni di giornali e tv avevano iniziato a riportare le prime agenzie: ++Duplice omicidio a Vicenza. Ancora senza nome le vittime++, ++Forse la mafia dietro il duplice omicidio di Vicenza++. Queste due pietre, lanciate nel lago, non stavano creando dei cerchi ma onde. Alle otto del mattino, questura e procura erano già prese d’assalto dai cronisti e dalle tv locali. Contemporaneamente dal Viminale giungevano telefonate al questore per conoscere lo stato delle indagini. Il circo mediatico doveva essere nutrito con notizie rassicuranti se non si voleva che la “città dell’oro” venisse travolta dalla parola mafia.

Dall’ultimo piano della questura, le urla del suo massimo diirigente scendevano fino al Corpo di Guardia. “No signor Ministro, non serve l’aiuto dei cugini dell’Arma. Abbiamo in pugno la situazione, a breve riferiremo i nomi e altri dettagli – disse con malcelata calma il questore Ferrini – non si preoccupi, daremo alla stampa lo stretto necessario e non una parola di più. Non parleremo di mafia e cercheremo di tranquillizzare tutti. “

Quando rimise la cornetta sul telefono, Ferrini respirò a fondo. Si strinse il nodo della cravatta e guardò l’orologio, il tempo scorreva. E con lui anche il rischio che la sua carriera si potesse fermare per quei due morti sconosciuti.

Ogni riferimento a persone esistenti o a fatti realmente accaduti è puramente casuale

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