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Miteni, «Barriera anti-Pfas in panne con la scusa del coronavirus»

«L'avaria» dei pozzi a difesa della contaminazione attribuita alla fabbrica dell'Ovest vicentino («un Mose idraulico») finisce nel mirino del consigliere regionale Guarda. Che assieme agli ambientalisti attacca privati, Zaia e Arpav

I pozzi barriera che alla Miteni dovrebbero proteggere parzialmente l'ambiente dai Pfas in che stato si trovano? Sono «un Mose idraulico» in parte in avaria, una avaria che nemmeno Arpav sa dire da quanto duri. È questo il succo di una nota al curaro diramata stamani dal consigliere regionale leoniceno Cristina Guarda del gruppo Civica per il Veneto. Guarda ribatte così alla stessa Arpav che non più tardi del del 4 di aprile aveva reso noto un dispaccio decisamente più soft. Sull'argomento però stamani sono intervenute anche le «Mamme no Pfas» le quali in una lunga nota scrivono che «mentre il mondo si ferma per la pandemia, il veleno invisibile avanza».

LE DUE EPIDEMIE
«C'è un'epidemia in Veneto - scrive la guarda - che riguarda ormai mezzo milione di residenti veneti e che fa ammalare i giovanissimi, con disfunzioni anche gravissime alla fertilità e fa esplodere nell'età matura l'incidenza del colesterolo. Si chiama Pfas e continua a ripercuotersi su di noi ora e nei prossimi anni, non solo per le ovvie responsabilità di imprenditori senza scrupoli, ma anche perchè la Regione Veneto ha latitato nei controlli e nelle richieste». Quella di Guarda, che crea un parallelismo nemmeno tanto metaforico tra la pandemia e la maxi contaminazione da Pfas attribuita alla Miteni, oggi fallita e poi rientrata nell'orbita della vecchia proprietà, è una vera e propria randellata alle istituzioni. Che si traduce non solo in un monito per palazzo Balbi ma anche in un monito per tutti i residenti del Veronese, del Vicentino e del Padovano, sui 300mila, che potenzialmente possono essere toccati dagli effetti di una contaminazione pluriennale derivante appunto dai Pfas, temutissimi derivati del fluoro, prodotti per anni dalla trissinese Miteni, una delle industrie chimiche più note dell'Ovest vicentino: un territorio che sta l'altro da anni deve fare i conti con una pressione ambientale devastante di altre imprese chimiche nonché conciarie. Il che da lustri ha dato vita ad una situazione che inevitabilmente ha messo gli uni contro gli altri in una sorta di stallo insuperabile ambiente e salute da una parte contro profitto e lavoro dall'altra.

«L'ultima notizia arrivata qualche giorno fa - accusa Guarda - ha dell'incredibile: quella specie di Mose idraulico messo in piedi per bloccare il più possibile la propagazione dei veleni in falda dall'ex Miteni non funziona, e nessuno all'Arpav sa dire da quanto. Per noi tutti che da anni battagliamo per la nostra terra è la beffa che si aggiunge al danno, ossia gli ormai sette anni che aspettiamo non solo il blocco totale della contaminazione, ma anche il progetto di bonifica». Appresso un affondo indirizzato all'esecutivo regionale e indirettamente ai privati che negli anni hanno posseduto il pacchetto di controllo della spa trissinese: «Chiediamo al governatore leghista Luca Zaia ed alla sua giunta di mettere un millesimo dell'impegno e delle risorse impiegate in queste settimane per il coronavirus, destinandole a questa emergenza già emersa con tutta la sua prepotenza nelle vite di centinaia di migliaia di famiglie». L'arrabbiatura di Guarda deriva dal fatto che alcune voci circolate sui media e rimbalzate nella galassia ambientalista attribuiscono queste carenze nel funzionamento della barriera alle difficoltà che l'attuale proprietà avrebbe incontrato nel procedere proprio a causa delle restrizioni delle forniture dovute all'emergenza sanitaria da Covid-19.

«TRESSETTE COL MORTO»
Tanto che Guarda ai taccuini di Vicenzatoday.it confessa: «Se non fosse drammatico ci sarebbe da ridere. Ci sono più della metà delle imprese aperte. Alle prefetture arrivano richieste di deroghe d'ogni tipo e guarda caso, ironia della sorte, una delle filiere bloccate finisce per essere quella di una bonifica ambientale che invece in forza delle disposizioni governative di questo periodo gode di una doverosa corsia preferenziale. A questo punto vogliamo capire chi si sta comportando con coscienza e chi invece ha deciso di fare il gioco dei bussolotti o peggio chi ha deciso di giocare a tressette col morto».  

I DOVERI DELLE ISTITUZIONI
Non meno tenere sono le «Mamme no Pfas» che nel loro dispiaccio attaccano Arpav: «Erano le 18,32 del Venerdì Santo e, mentre otto milioni di spettatori attendevano la diretta della Via Crucis di Papa Francesco, in questo delicato periodo in cui tutta la nostra attenzione è concentrata sul Covid-19, Arpav rompeva l'uovo di Pasqua in anticipo dal quale usciva un comunicato stampa con il quale informava di controlli effettuati presso il sito Miteni e relativamente ad alcuni interventi di manutenzione ordinaria e straordinaria ai pozzi ripristinando la funzionalità di alcuni che erano in avaria. Deduciamo che i pozzi in avaria - accusano ancora gli attivisti e le attiviste - siano fra quelli utilizzati come barriera idraulica, ma non capiamo da quanto tempo fossero fuori uso e non sappiamo come e con quale frequenza si siano svolti i controlli prima della verifica del 20 marzo scorso durante la quale» spiegava Arpav le cui parole sono riportate letetralemente «si è proceduto anche al campionamento per il monitoraggio di alcuni pozzi». Le Mamme no Pfas ci contro arrivano a dire che «la barriera idraulica non è una messa in sicurezza affidabile e, per quanto sia stata implementata nel tempo non ha mai funzionato a dovere».

Segue una serie di puntuali riferimenti alla norma in cui si spiega che sia la bonifica sia il suo step preliminare ossia la caratterizzazione, nonché una eventuale la messa in sicurezza, sono incombenze in capo ai privati o ai proprietari dell'area e in caso non sia possibile attivare questi ultimi devono essere gli enti pubblici a provvedere. E così la situazione si ingarbuglia mentre dalla galassia ambientalista veneta sale la rabbia di coloro che da anni sostengono la teoria della «grande scappatoia». Teoria la quale si sostanzia nel fatto che anche grazie ad un fallimento i cui contorni non sono ancora stati tutti chiariti, chi dovrà pagare la bonifica, ammesso che questa sarà mai completata «visto che la cosa appare irrealistica giacché si parla di centinaia di milioni di euro», saranno gli enti pubblici.

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