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Pfas e alimenti: c'è contaminazione in 22 comuni su 26

Solamente nella sola «zona rossa» colpite le aree tipiche del prosciutto a Montagnana del mandorlato a Cologna, nonché quelle del quelle di riso e piselli a Lonigo: questo è il contenuto dello studio che la Regione Veneto aveva negato a Greenpeace e al coordinamento delle madri che si battono contro «i temutissimi derivati del fluoro». Le associazioni, ottenute le carte, adesso mettono in chiaro una parte dei dati e attaccano palazzo Balbi: tralasciati i «prodotti riconducibili alle filiere di grandi aziende presenti sul mercato nazionale», ora «servono screening e monitoraggi»

Alla fine è stato svelato. Lo studio compiuto da palazzo Balbi in merito alla penetrazione dei Pfas, i temibili derivati del fluoro, nella catena alimentare dei comuni veneti colpiti dal maxi caso di inquinamento attribuito alla Miteni, una industria chimica di Trissino nel Vicentino oggi fallita e finita in un maxi scandalo giudiziario, è stato pubblicato nei passaggi salienti da Greenpeace Italia e Mamme No Pfas. Le due associazioni ottenute le carte hanno deciso di pubblicare una parte rilevante dei dati acquisiti dopo che questi ultimi sono stati elaborati da un pool di specialisti. La novità è emersa oggi 20 settembre quando nel pomeriggio le due associazioni hanno diramato una lunga nota congiunta

«Si tratta di dati georeferenziati - si legge - e mai diffusi in forma integrale dalle autorità competenti, ottenuti dalle Mamme No Pfas e da Greenpeace dopo una lunga battaglia legale nei confronti della Regione Veneto, che per anni si è rifiutata di renderli pubblici. Dalle elaborazioni emergono molte criticità: numerosi alimenti risultano infatti contaminati non solo per la presenza di Pfoa e Pfos, ossia due sottofamiglie dei Pfas, ma anche per tanti altri composti di più recente applicazione industriale».

IL PREAMBOLO
Gli ambientalisti avevano rizzato le antenne quando nel 2019 l'Istituto superiore della sanità, meglio noto come Iss, aveva redatto un documento intitolato «Valutazione dell'esposizione alimentare e caratterizzazione del rischio. Un documento dedicato proprio al tema della possibile contaminazione della catena alimentare nelle zone più colpite dalla presenza dei Pfas, composti chimici usati in quasi ogni settore industriale e prodotti su larga scala proprio dalla Miteni. Quel documento dell'Iss a sua volta richiamava lo studio ordinato da palazzo Balbi alle Ulss del territorio nel quale sarebbero state effettuate «analisi su 1.248 alimenti, 614 di origine vegetale e 634 di origine animale».

Sempre nell'ambito della indagine «i campioni dei vegetali sono stati analizzati dal laboratorio Arpav di Verona, mentre quelli animali dal dipartimento di Sicurezza alimentare, nutrizione e sanità pubblica veterinaria dell'Iss di Roma... su richiesta dell'Istituto zooprofilattico sperimentale delle Venezie di Legnaro nel Padovano  che ha svolto anch'esso alcune analisi». I dati grezzi poi sono stati forniti dalle tre Ulss che hanno eseguito i prelievi dei campioni»: ossia la Ulss 8 Berica, la Ulss 6 Euganea e la Ulss 9 Scaligera.

LE PRIME CRITICHE
Appresso i due gruppi ecologisti distillano una prima critica: «Alle Mamme No PFAS e a Greenpeace sono stati consegnati un numero inferiore di dati rispetto a quelli contenuti nella relazione del 2019 dell'Istituto superiore di sanità. Tuttavia, nonostante la mancanza di gran parte dei rilevamenti effettuati sul pescato, le due associazioni hanno effettuato delle semplici elaborazioni e una mappatura di tali dati e, pur non entrando in valutazioni squisitamente tecniche da demandare ad esperti del settore, alcune criticità risultano lampanti».

CAMPIONAMENTI NON RECENTI: RISALGONO AL 2016 E AL 2017
E poco dopo arrivano le bordate a palazzo Balbi: «I campionamenti sono stati effettuati negli anni 2016 e 2017. Da allora non sono seguite ulteriori indagini su vasta scala nonostante numerose matrici siano risultate fortemente contaminate. A ciò si aggiunge l'assenza di azioni risolutive volte ad azzerare l'inquinamento e a ridurre, almeno progressivamente, la contaminazione delle acque non destinate ad uso potabile». Di seguito un'altra cannonata: «Una tale mancanza risulta sorprendente. Dalle informazioni fornite dalla Regione Veneto lo scorso maggio, sarebbe al momento in fase di programmazione un nuovo campionamento con successive indagini analitiche, nonostante già nel 2019, cioè due anni fa, una deliberazione della Giunta Regionale indicasse di procedere con nuove indagini... Da più di quattro anni, quindi, non è stata fatta nessuna ulteriore analisi sugli alimenti.  L'inerzia istituzionale dimostrata dalla Regione stride con quanto stanno facendo altri enti pubblici; l'Europa, ad esempio, introdurrà presto il divieto per  più di duecento Pfas; al contrario in Veneto non si riesce ad effettuare nemmeno un monitoraggio degli alimenti, con cadenza almeno annuale, volto a tutelare la popolazione contaminata e le filiere zootecniche e agroalimentari». Quest'ultima, spiega Giuseppe Ungherese, portavoce per la campagna Pfas di Greenpeace «è una circostanza che ci dovrebbe far riflettere».


PARAMETRI DI SICUREZZA: «REVISIONE AL RIBASSO»
Ma c'è di più. Il fronte ambientalista accusa l'amministrazione regionale di avere proceduto con una «forte revisione al ribasso dei parametri di sicurezza» anche in ragione del fatto che a fronte di una indagine non molto approfondita «non sia poi seguita alcuna nuova valutazione né tantomeno un'azione concreta di tutela della popolazione e delle filiere agroalimentari e zootecniche da parte della Regione Veneto». Detto in altri termini Mamme No Pfas e Green Peace sostengono che senza analisi continue ed approfondite da parte della Regione la salubrità della catena alimentare in ambito agricolo e zootecnico, ossia due settori che gioco forza non possono adoperare la risorsa dell'acquedotto ma debbono utilizzare i pozzi contaminati, sia fortemente a rischio. Sia per quanto riguarda i Pfas di vecchia generazione, sia per i nuovi, i cosiddetti «catena corta», che nonostante le smentite dell'industria vengono accusati della medesima nocività (ma in molti casi vengono valutati ancor più negativamente) delle molecole artificiali di concezione più datata.

IN CAUDA VENENUM: QUEGLI ESCLUSI SOSPETTI
Ma il colpo più micidiale le due associazioni lo assestano alla fine quando nel descrivere lo studio della Regione parlano di «logica difficilmente comprensibile riguardo la scelta dei siti di campionamento e la presumibile mancanza di indagini su prodotti riconducibili a filiere di grandi aziende alimentari presenti sul mercato nazionale». Si tratta di parole durissime che potrebbero indurre addirittura a pensare che questo alone di mistero sia il frutto di una manovra ordita a tavolino. E ancora: «Il monitoraggio risulta inoltre carente in quanto non risultano essere state analizzate alcune importanti matrici di produzione diffusa in zona: spinaci, solo un campionamento effettuato, radicchio, solo un campionamento effettuato».

E ancora, i controlli non avrebbero interessato nella dovuta maniera «kiwi, meloni, angurie, grano» giacché «è stato analizzato solo un campione di farro» e poi «soia, mele» nonché «altri vegetali a foglia larga». Il problema, si legge ancora nella nota «non riguarda solo l'area rossa poiché lo stesso monitoraggio «mostra altri limiti evidenti legati all'area geografica selezionata, che non include l'area arancione e altre zone toccate dalla contaminazione» a partire da Trissino, comune in cui è ubicata la Miteni, la ditta considerata dalla procura berica alla base della contaminazione.

AREE GEOGRAFICHE
Ad ogni buon conto se si leggono i dati elaborati dai due raggruppamenti ecologisti salta poi all'occhio che i comuni oggetto dello studio voluto da palazzo Balbi sono ventisei, grosso modo i cosiddetti «comuni della zona rossa» che si trovano dislocati su un'area vasta della pianura veneta centrale tra Veronese, Vicentino e Padovano. Si tratta di province che sarebbero state colpito dal maxi inquinamento da Pfas che alcuni enti pubblici e la procura di Vicenza attribuiscono giustappunto alla Miteni. Se poi si guardano ancor più nel dettaglio i dati emerge che tra i ventisei comuni messi nel mirino ben ventidue hanno presentato prodotti alimentari contaminati, chiaramente in percentuali variabili.

Tra le aree geografiche più significative, almeno fra quelle note per alcuni produzioni tipiche ci sono Cologna Veneta, patria del torrone mandorlato (sono risultati contaminati il 17% dei campioni su un totale di 114), Montagnana, patria dell'omonimo prosciutto (25 campioni positivi su 35) e Lonigo, principalmente nota per il vino, per i piselli e per il riso (44% su 86 campioni). Peraltro nella rielaborazione condotta dalle Mamme non Pfas e da Greenpeace pubblicata sul portale web di quest'ultima non viene menzionata la tipologia del prodotto campionato: che può essere quindi un qualsiasi vegetale o un alimento di origine animale tra quelli ricompresi nella indagine.

Quanto poi ai singoli alimenti quelli che sulle prime presentano una rilevanza statistica con un minimo di spessore (il numero dei campionamenti è basso per vero) ci sono il fegato di vitello, le uova di gallina e l'uva da vino. Un cenno ad hoc è quello che spetta alle patate. Nonostante queste siano un bene di larghissimo consumo i campionamenti effettuati, e poi riportati, sono solo 59. Lo stesso vale per il mais, che alimenta sia l'uomo che il bestiame, per il quale i campionamenti toccano solo quota 55. Non è da escludere che nei giorni a venire, se disponibili, le due associazioni procedano ad indicare con dovizia di dettaglio i punti geografici esatti di prelievo del campione, il contenuto dello stesso nonché i relativi superamenti delle soglie di specie.

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