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Sabato, 20 Aprile 2024
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Marco Tomasi: «Vi racconto come ho portato la cucina italiana sul tetto del mondo»

Il giovane chef di Olmo di Creazzo racconta com'è maturata la vittoria al Global Chef Challenge, parlando poi della situazione della cucina e dei ristoranti che non trovano personale

Giovane e già sul tetto del mondo. Marco Tomasi, cuoco 28enne di Olmo di Creazzo, ha trionfato nella categoria senior all’ultimo Global Chef Challenge ad Abu Dhabi, lo scorso giugno. Assieme al suo assistente, il bormino Tommaso Bonseri Capitani, Marco è riuscito a sbaragliare la concorrenza dei migliori chef dai cinque continenti e a consegnare la prima, storica, vittoria alla Nazionale Italiana Cuochi nel prestigioso torneo di cucina internazionale.

Marco, partiamo dall’inizio. Com’è iniziata la tua avventura nella Nazionale Italiana Cuochi?

Si può entrare nella nazionale attraverso due metodi: dalle selezioni o per il merito nelle competizioni. È questo il mio caso, perché sono stato chiamato dopo aver vinto i campionati italiani di cucina, nel 2017 a Rimini.

Come funzionano le competizioni internazionali?

La Worldchefs, la federazione internazionale, organizza varie manifestazioni. Come nel calcio, ci sono le olimpiadi e i mondiali, in questo modo ogni due anni c’è una competizione, in cui si sfidano più di 38 stati. Si tratta di gare di squadra, mentre nel Global Chef Challenge, la gara che ho vinto io, si partecipa singolarmente.

Cosa puoi dire riguardo questa competizione?

Parliamo di una gara che dura più di due anni, dal momento della selezione fino alla finale. È una competizione molto tosta, una di quelle cose che si fanno una volta nella vita dato il quantitativo di ore che servono per prepararla. Fra l’altro, alcune nazionali partono avvantaggiate.

In che senso?

Nonostante negli anni la nazionale italiana sia cresciuta parecchio dal punto di vista delle competizioni, grazie agli investimenti giusti e all’arrivo di sponsor importanti che hanno permesso se non altro di rimborsare le spese, siamo ancora lontani da quello che succede, ad esempio, nei paesi scandinavi. In Svezia e in Norvegia lo stato stipendia gli chef, che così per due anni possono staccarsi dalle loro attività per dedicarsi esclusivamente alla competizione.

Come mai in Italia ciò non avviene?

Probabilmente perché l’Italia è già conosciuta nel mondo per la sua cucina, mentre all’estero questa cosa manca, e allora cercano di promuoversi in questa maniera. Gli svedesi si portano dietro la tv nazionale in questo genere di competizioni.

Quali piatti avete portato al Global Chef Challenge?

Innanzitutto è bene premettere che nelle competizioni ci sono delle linee guida da rispettare. Le pietanze si dividono in starter, main course e dessert. Ci sono delle regole anche sulle impostazioni dei piatti, in percentuali di proteine, di carboidrati e di vegetali, o se dev’essere caldo o freddo. Essendoci degli sponsor, ogni piatto possiede un elemento principale che deriva da uno di questi, e bisogna lavorare su di esso. Noi dovevamo preparare un menù di quattro portate, per 12 persone: un piatto vegano a base di bergamotto e germogli, un piatto di pesce a base di halibut, una main course a base di filetto, collo e animella di vitello e un dessert a base di mango, clementina, cioccolato e tè. (CONTINUA DOPO LA FOTO)

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Il main course presentato da Marco al Global Chef Challenge: filetto di vitello aromatizzato, terrina di animelle di vitello, brasato di collo con polenta, sedano rapa al bbq e sformatino di bietoline e rafano.

Non assolutamente qualcosa di semplice, eppure siete andati a trionfare…

Il segreto del successo è l’ambiente magico che è venuto a formarsi, un po’ com’è successo con la nazionale di calcio del 2006. Sicuramente questo segreto va ricercato nel legame con il mio assistente Tommaso, con il quale mi completo in cucina. Poi c’è stata l’abilità del coach, Pierluca Ardito, che oltre a essere il genio della situazione è la persona che sa stimolare i giovani. Ancora all’inizio del cammino ci aveva detto: «se volete ve lo scrivo su un pezzo di carta il risultato che faremo ad Abu Dhabi». C’è sempre stata la consapevolezza di andare là e fare bene, anche se non è sempre stato semplice.

Avete avuto qualche difficoltà nel percorso?

Ancora in fase di preparazione, il primo problema che abbiamo avuto è stato con il piatto vegano. Essendo una cucina nuova, non è di semplice approccio. Abbiamo così deciso di andare a conoscere il guru della cucina vegana in Italia, Pietro Lehmann, che ci ha svelato la sua visione. Comunque la Federazione ci è venuta incontro, con un’idea geniale.

Cioè?

Gli allenamenti sono stati organizzati in modo da far degustare i nostri piatti a chef stellati. Questo ci ha dato fin da subito la possibilità di avere una visione da parte dei professionisti del mestiere. Ne è nata una cosa simpatica. Il mondo delle competizioni e quello della ristorazione stellata sono simili, ma distanti nelle idee. La cosa che ci è piaciuta è vedere all’inizio gli sguardi scettici, e poi lo stupore una volta vista la quantità di lavoro e di tecniche impiegate per realizzare un piatto. In una competizione c’è una tempistica da rispettare, per il Global Chef Challenge erano cinque ore, e questo rende tutto più difficoltoso.

È servito molto, ai fini della gara?

Abbiamo fatto talmente tanti allenamenti che al momento della competizione eravamo tranquillissimi. Nel momento finale, quando ho visto che tutto stava assemblandosi nel modo corretto, mi sono passati davanti agli occhi tutti i sacrifici fatti in questi anni. Subito dopo sono venuti i giudici, a darci il feedback. Il commento del capo della giuria ci ha fatto capire di aver vinto. «È stato un onore per noi potere degustare il vostro menù». Il commento che più ho apprezzato invece è quello secondo cui siamo riusciti a esaltare la materia prima, lasciandola però nel modo più naturale possibile. Per un cuoco questa è una cosa magnifica.

Cambiando discorso, tu sei tornato nella gastronomia di famiglia dopo avere girato per alcuni tra i migliori ristoranti d’Europa. In questi mesi molti ristoratori stanno lamentando il fatto di non trovare personale. Cosa ne pensi a riguardo?

È un discorso un po’ complicato. Per farti un esempio, nel 2016, quando lavoravo a Le Gavroche di Londra, un’icona della ristorazione dalla quale sono usciti tra i migliori chef del mondo, uno su tutti Gordon Ramsey, era venuto fuori uno scandalo sul The Guardian. Avevano intervistato alcuni miei colleghi, uno dei titoli era «Chef di un ristorante stellato, dove un antipasto costa 90 sterline, pagati meno della metà di un cuoco del Mac Donald». Anch’io ho fatto le mie esperienze da sottopagato, però le ho vissute come una sorta di università. Con i soldi che guadagnavo, però, ci pagavo a malapena l’affitto.

Com’è l’ambiente in un ristorante stellato?

Non è cosa per tutti. La cosa più importante è la passione e il riuscire a rimanere lucidi. Non dipende totalmente da te, c’è talmente tanta tensione che non è detto che il fisico possa tenere. È una cosa a cui sarò per sempre legato, anche se non trovo giusto che un professionista venga pagato così poco. Ok la gavetta, ma il sacrificio deve venire riconosciuto.

Sta cambiando il lavoro in cucina?

Per quanto riguarda gli orari di lavoro non ci si può fare nulla, un panettiere lavorerà sempre di notte. Si deve invece lavorare sul ridurre il numero di ore, ed eventualmente aumentare la retribuzione. Se sarà altrimenti, l’ambiente potrebbe svuotarsi dei professionisti, come già succede, con conseguente declino per la cucina.

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Il desser preparato da Marco al Global Chef Challenge: mousse di cioccolato e the, gelato al the, finto tuorlo con di mango e clementina, tortino al cioccolato con caramello esotico

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