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Fallimento Miteni, fari puntati su curatore, giudice e enti pubblici: «Chi paga i danni?»

La scelta di non corrispondere a ministero dell’ambiente e Regione Veneto indennizzi per 150 milioni potrebbe essere piena di insidie

Il curatore fallimentare della Miteni, ovvero il dottor Domenico De Rosa, con la decisione presa alcuni giorni fa si è accollato una rogna non da poco. De Rosa infatti avrebbe optato per escludere dal recinto degli aventi diritto le istanze di indennizzo di Acque del Chiampo, Regione e Ministero dell’ambiente. I quali in prima battuta per avevano avanzato richieste per 150 milioni di euro, spicciolo più, spicciolo meno, per i danni ambientali cagionati dalla maxi contaminazione che Arpav e procura di Vicenza ascrivono alla fabbrica di Trissino, fallita il 12 novembre 2018, da anni al centro dell’affaire Pfas.

Ma quali sono le ragioni di questa scelta? Stando al Corriere del Veneto del primo marzo a pagina 10, De Rosa che segue su incarico del tribunale il crac dell’industria di Trissino, rileva infatti che si tratta di pretese che «presuppongono l’accertamento» di un dolo o una colpa «al momento non accertate da nessun giudice». La particolarità di questa presa di posizione è che mutatis mutandis questa ricalca quella assunta dal vecchio management di Miteni sul quale si è abbattuto da parte dei comitati ogni tipo di accusa.

Ma le cose stanno davvero così? L’ambito civilistico, che è poi quello in cui opera il curatore fallimentare, è contraddistinto da un approccio nella identificazione del danno che è assai meno stringente di quello penale. Di più, se il curatore dovesse aspettare una sentenza passata in giudicato il tempi si potrebbero dilatare sine die.

Di conseguenza la strada indicata dal curatore è l’unica percorribile? Da questo punto di vista è opportuno ricordare che la legge impone al curatore due compiti fondamentali. Uno, identificare le cause del fallimento, additando eventuali responsabili. E per fare questo i margini di manovra garantiti dall’articolo 33 della legge fallimentari sono assai chiari. Due, tutelare, per quanto possibile, i potenziali creditori, che in questo caso sono anche gli enti pubblici che, curando l’interesse della collettività, si ritengono colpiti dagli effetti del caso di contaminazione.

Da questo punto di vista è molto bizzarro, per esempio, che non si sia avuta notizia di azioni di responsabilità avviate dal curatore nei confronti dei vertici aziendali (l’azione di responsabilità è una azione civile che il nuovo management di una azienda, nel caso di una procedura di fallimento il vertice aziendale è costituito dal curatore, muove contro il vecchio vertice a causa della sua «mala gestio»).

Questo silenzio sulla assenza della azione di responsabilità per vero ha aumentato lo stato di angoscia di molti settori dei comitati ambientalisti che temono appunto lo spostamento del curatore su posizioni sempre più prossime a quelle della precedente gestione. Il che potrebbe avere in qualche modo l’effetto di tutelare anche i vecchi proprietari di Miteni, ovvero Mitshubishi ed Icig, nei confronti dei quali si è comunque rivolta l’attenzione degli investigatori di una inchiesta penale che è agli sgoccioli quanto meno per la parte preliminare.

Il motivo? Nel proseguo del procedimento, per esempio, la pubblica accusa, che ha strumenti di accertamento della verità molto più incisivi, potrebbe limitarsi a prendere atto della fotografia scattata dal curatore, senza spingersi oltre. Rimane da capire a questo punto se il curatore abbia attivato i canali necessari, ove possibile, per attingere a quella parte del fascicolo penale in cui sono stati evidenziati nero su bianco gli addebiti che l’ufficio del pubblico ministero muove alla Miteni, nonché le prove a sostegno della stessa accusa.

In un contesto del genere però non si possono tacere gli spazi di manovra che sono a disposizione degli altri soggetti interessati a questa fase della procedura fallimentare. Anzitutto occorrerà valutare con molta attenzione il comportamento della Regione Veneto, che avanza pretese per circa cinque milioni di euro, di Acque del Chiampo che ne chiede due e mezzo, nonché del ministero dell’ambiente che ne avanza per ben 140 milioni. Si tratta nell’insieme di una cifra considerevole che, è bene ricordarlo, non corrisponde al monte globale per gli eventuali danni apportati al sottosuolo, alla falda, alla popolazione, ai lavoratori e all’ambiente nel suo complesso. Quei quasi 150 milioni non sono altro che la quantificazione di una serie di spese “preliminari” e di danni che i soggetti che la pretendono ritengono di avere dovuto patire o affrontare per la prima emergenza.

La partita, molto più grande, sulla entità del danno complessivo è ancora in alto mare anche perché in tutti questi anni, ovvero da quando nel 2014 è deflagrato l’affaire Pfas, né la magistratura penale né la Regione Veneto sono state in grado di imporre al privato la caratterizzazione ovvero quella fase tecnica di accertamento utile a capire l’entità del danno ambientale e la quantità di fondi per risanarlo: il che è stato più volte stigmatizzato dal fronte ecologista. Da tempo peraltro si parla di cifre colossali che, come è accaduto in passato in altri casi, non solo saranno rifuse in una microscopica parte, ma soprattutto saranno difficilmente quantificabili.

Di più, da anni si parla di danni che non potranno mai essere riparati: con la contaminazione che potrebbe rimanere nell’ambiente per decenni e decenni. Ad ogni modo proprio Acque del Chiampo, Regione e ministero, in ossequio alla legge fallimentare, potranno eccepire rispetto alla marcia impressa dal curatore. Se ne ricava che se la linea tracciata dal curatore De Rosa non dovesse piacere a palazzo Balbi e a Roma dovranno essere proprio questi due a battere i pugni. Di converso se rimanessero in silenzio si potrebbe pensare che l’impostazione di De Rosa in qualche modo è giudicata convincente o addirittura conveniente, ma per chi? Il che poi farebbe a cazzotti con i proclami bellicosi contro la Miteni per mesi lanciati dall’assessorato veneto all’ecologia e dal ministero dell’ambiente.

Proprio in questo senso va rilevato un aspetto fondamentale. In questa vicenda (che in termini giuridici è nota come progetto di stato passivo) il giudice fallimentare, lo dice la legge, non è un mero osservatore delle dinamiche delle parti in causa. È invece una parte attiva e fondamentale per l’accertamento della verità tanto che l’articolo 95 della legge fallimentare statuisce che «il giudice delegato può procedere ad atti di istruzione su richiesta delle parti». Detto alla grezza, se nel progetto del passivo, il fallito e di conseguenza chi ha eventualmente causato i danni, prova a sgusciare via dalle sue responsabilità, il giudice può ordinare al curatore di mettere altre carte in tavola in modo che nulla sfugga al recinto delle responsabilità.

Succederà? Non succederà? Difficile dirlo. Ma è chiaro che in un frangente del genere, quanto meno sul piano politico, se ministero e regione non faranno il diavolo a quattro davanti al giudice dovranno poi rendere conto delle loro scelte proprio davanti a quell’elettorato e a quei gruppi di cittadini che in passato avevano rassicurato ad ogni piè sospinto. Sul piano mediatico si sono quindi accesi tre fari: uno sugli enti pubblici, uno sul curatore ed uno sul giudice.

E la pressione mediatica è destinata a crescere fino al 12 marzo, data fissata davanti dal giudice per dire sì, no o “portatemi altre carte”: ovvero per decidere gli esiti del progetto dello stato passivo.

Ad ogni modo un primo assaggio di quello che potrebbe verificarsi nei giorni a venire lo si è avuto oggi a palazzo Ferro Fini, sede del consiglio regionale veneto. Il gruppo del M5S infatti con una nota diffusa oggi ha sparato ad alzo zero proprio sulla decisione assunta dal curatore  di non iscrivere nell’elenco delle passività della Miteni le sanzioni e le richieste di risarcimento portate avante dagli enti pubblici. Una scelta dipinta come uno «schiaffo in faccia ai cittadini».

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