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Il prolungamento «del tubone» Arica a Cologna veneta? «Inutile e dannoso»

Le mamme «no Pfas» attaccano ad alzo zero il progetto relativo al collettore dei reflui industriali dell'Ovest vicentino caldeggiato da Regione e imprese conciarie

Per le Mamme no Pfas il prolungamento «del tubone Arica» oltre Cologna veneta è un progetto «inutile e dannoso». Non risolve il problema della dispersione dei Pfas dal comprensorio di Trissino nel sistema del Fratta Gorzone come non impedisce che lo stesso accada con i reflui del polo conciario dell'Ovest vicentino. È questo il succo di una dura nota diffusa oggi 30 ottobre appunto dalle «mamme no Pfas». Le quali peraltro negano che l'opera aiuti a migliorare la qualità del sistema idrico del Guà-Fratta.

L'ANTEFATTO
I reflui delle industrie del polo dell'Ovest Vicentino sono da decenni al centro di una querelle infinita. C'è la vicenda molto nota della Miteni, al centro di uno scandalo di portata nazionale. Poi ci sono le imprese del polo conciario che corre lungo l'asse Chiampo, Arzignano, Zermeghedo, Montorso, Montebello, sfiorando anche Trissino. Ci sono poi gli insediamenti di Montecchio Maggiore e di Lonigo. Si tratta di un insieme che secondo le associazioni ecologiste, specie del Veronese, da anni sottopone l'asta dell'Agno-Guà-Fratta-Gorzone, ma pure la falda di Almisano, ad una pressione ambientale inaudita. Che negli anni si è manifestata anche in spregio alla normativa vigente. Architrave di questo «guazzabuglio giuridico-ambinetale» sostiene da anni la galassia ecologista veronese, sta nella modalità in cui questi reflui, una volta raccolta in un unico collettore, quello del consorzio Arica, finiscono nel fiume Fratta.

Il tutto presenterebbe concentrazioni da brivido che se non ci fosse, proprio nel territorio colognese, la diluizione con le acque del canale irriguo del Leb, a sua volta alimentato dall'Adige. Si tratta di una condizione particolare che da sempre non piace troppo al mondo agricolo. Il quale però da anni deve fronteggiare la pressione che l'industria, conciaria in primis (questa ad esempio è la convinzione di Legambiente), industria che dispone di un blocco sociale, politicamente eterogeneo, «inscalfibile sia per peso economico», giacché si parla di un paio di miliardi di fatturato, «sia proprio per peso sociale» visto che gli addetti, diretti e indiretti, si aggirano attorno ai diecimila.

In realtà la partita dei reflui del polo industriale dell'Ovest vicentino, specie per il distretto conciario, porta con sé una tara che risale agli anni '90 che allora divise addirittura il mondo ambientalista. Quando alla Regione Veneto governava il centrosinistra i Verdi, che occupavano l'assessorato all'ecologia proposero ed ottennero di realizzare un sistema di depuratori consortili che di fatto mescolava il trattamento delle acqua civili e industriali. La scelta venne in seguito, ma anche prima, criticata ferocemente da più parti giacché si trattava di una sorta di escamotage che evitava alle industrie l'onere di trattare singolarmente le acque di ciascuna fabbrica in modo che questa fosse depurata per essere poi re-immessa nel ciclo. Il che garantiva alle imprese un notevole risparmio, finendo però per impattare più gravosamente sul territorio anche in forza dei reflui che finivano nel sistema del Fratta. Cosa che accadeva anche prima degli anni '80. Tra coloro che si sono sempre detti contrari ad una opzione del genere fino a definirla una sciagura c'è Gianni Tamino. Già deputato dei Verdi, professore all'università di Padova, Tamino è uno dei più eminenti biologi italiani. Da anni sostiene che quello riservato ai reflui conciari non sia un trattamento ma piuttosto una diluizione mascherata.

IL PROGETTO
Ad ogni modo quando diverse settimane fa Arica, che ha sede ad Arzignano, aveva pubblicato sul suo sito una sinossi per il prolungamento del collettore (il progetto è caldeggiato in primis dall'industria della pelle e dalla Regione Veneto) i mal di pancia nel mondo agricolo e in quello ambientalista non erano mancati. Come non era mancato lo scherno nei confronti degli estensori della brossura on-line poiché al posto della misura della superficie che sarebbe tutelata dall'intervento erano stati stampigliati dei punti interrogativi che avevano fatto gridare «alla burla o alla beffa».

LA PRESA DI POSIZIONE DEI GENITORI
In queste ore però il tenore delle critiche è salito. Il documento diramato stamani dal coordinamento dei genitori no Pfas, noto come mamme no Pfas, va giù duro nei confronti di un'opera i cui lavori dovrebbero cominciare nel 2020. «La ricezione dei reflui dell'impianto di Cologna Veneta all'interno del tubo Arica - si legge - avrà come unica conseguenza una maggiore portata dello scarico del tubo stesso». Il che porterà ad una «... maggiore diluizione...» rispetto ai reflui provenienti dal comprensorio dell'Ovest vicentino. Il che non cambierà affatto quanto accade oggi, ovvero, lamentano le mamme, «il tubo Arica scaricherà comunque direttamente nel Fratta».

Appresso il coordinamento mette nel mirino proprio l'industria della pelle: «Maggiore protezione? Se il tubo viene spostato di tre kilometri e mezzo - si legge ancora nella nota - si può parlare di maggiore protezione? Il letto di quel fiume in quei 3,5 kilometri è sovraccarico di ogni sorta di componenti chimici derivanti soprattutto dal polo conciario che scarica in quel punto dai primi anni Duemila; spostare lo scarico non cambierà la composizione del sedime in quella tratta di fiume, giacché non è prevista un'eventuale bonifica della zona interessata». Si tratta di parole durissime cui fa seguito una chiusa dello stesso tenore: smascherati i falsi meriti del prolungamento, spiegano le mamme «resta solo l'amara giustificazione di questa costosa operazione. Di sicuro non si potrà più vedere quell'acqua nera del tubo Arica». Da anni infatti il punto in cui le acque inquinate provenienti dal Vicentino si mischiano con quelle del Leb, erano diventate una sorta di tappa obbligata dei pellegrinaggi degli ambientalisti: quell'acqua scura, quell'odore acre erano in qualche modo divenuti il paradigma della pressione del distretto chimico dell'Agno-Chiampo della vicina provincia berica. «Lorsignori - attaccano le Mamme no Pfas - chiamano questa pratica vivificazione perché se indicassero nella delibera regionale quello che realmente è, ovvero una diluizione, la cosa sarebbe illegale». Tanto che in queste ore il comitato ribadisce che quel prolungamento «è inutile e dannoso».

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